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La montagna friulana ha bisogno di una regia

L’editoriale del direttore Roberto Pensa su “la Vita Cattolica” del 9 marzo 2016. La Regione paga 120 euro per ogni pernottamento negli alberghi diffusi del Friuli-Venezia Giulia. Non resta che indignarsi? È tutto da buttare via. Assolutamente no. Anzi, bisognerebbe investire ancora di più sul turismo, specie in montagna, ma in maniera intelligente. La Regione si preoccupi meno di distribuire finanziamenti e più di elaborare strategie.

Se nella Vita Cattolica del 9 marzo 2016 parliamo di albergo diffuso non è per accodarci al coro dei pessimisti di professione o dei censori degli «sprechi». Tutt’altro. Certo, i dati, presentati nella loro crudezza, fanno una certa impressione. Una media di 113 ospiti a notte su oltre 2 mila posti letto disponibili. Oltre 25 milioni di euro spesi nel periodo 2009-2013 per poco più di 207 mila presenze (ovvero pernottamenti). Insomma, per ogni turista che ha dormito nell’albergo diffuso, la Regione ha regalato ai gestori 120 euro.

Visto con gli occhi del contabile è la radiografia di un pesante fallimento. E oggi anche la politica rischia di ragionare solo da contabile. In tempi di crisi e di contrazione della spesa pubblica, l’indignazione è facile ad incendiarsi e non manca chi chiede a gran voce una bella sforbiciata di questi contributi. Il che, non sarebbe giusto, perché, come illustriamo nel nostro servizio, non tutte le situazioni sono uguali e qualche esperienza più positiva di altre c’è, che va salvata e rafforzata.

Ma soprattutto il compito della politica non è limitarsi ad usare il pallottoliere e tantomeno quello di fare il generoso elargitore di contributi assistenziali, semmai di essere un facilitatore, un catalizzatore di progetti imprenditoriali. Insomma saper immaginare il futuro e accompagnarne la crescita e la realizzazione. Saper ascoltare le voci del territorio (degli imprenditori, del tessuto associativo e culturale) e metterle in connessione con le migliori pratiche e le più elevate competenze che occorrono nella dura competizione economica di oggi.

E il turismo è uno degli ambiti ormai più globalizzati e competitivi dell’economia. La crisi della montagna è sotto gli occhi di tutti. Rapida diminuzione della popolazione, crescente abbandono del territorio con i conseguenti problemi di assetto idrogeologico, crisi di molte realtà locali, non solo economiche ma anche sociali. Il turismo «lento», non di massa, per il suo stretto legame con l’ambiente, è una delle poche risorse che può preservare il territorio e legarsi in maniera sinergicamente positiva con le poche attività agricole di qualità rimaste nelle terre alte. Non continuare ad investire in questo ambito sarebbe davvero una scelta deleteria. Basta fare un salto in Austria ma anche in Slovenia (nella valle dell’Isonzo, ad esempio) per vedere come turismo faccia rima con cultura ambientale e crescita economica.

Il confronto con la nostra realtà, però, mette a nudo la mancanza di una regìa: nei Paesi vicini le vallate, gli ambiti territoriali sono stati aiutati dagli enti pubblici superiori a capire i loro punti di forza, a confrontarli con la domanda turistica mondiale e con le richieste dei tour operator e di conseguenza sono stati decisi investimenti mirati per realizzare un prodotto turistico moderno. In questo senso il Caporettano è un esempio fulgido: nel 1991, all’indipendenza della Slovenia, era una landa desolata dal punto di vista turistico, al pari della contigua Slavia Friulana. In pochi anni, con una intelligente politica strategica di valorizzazione dell’esistente, è diventata una potenza europea dell’ospitalità.

Da noi invece la frammentazione di progetti e di strategie (che spesso si fermano a livello comunale) fa spendere molto ma non produce granché.

In passato il caos istituzionale ha regnato sovrano: sovrapposizioni di competenze (comuni, comunità montane, Gal, Provincia, Regione….), tutti enti coinvolti nell’amministrazione e finanziamento di progetti, ma senza nessuno a pensare e coagulare strategie.

E per il futuro? Il quadro è ancora più fosco: la Regione sembra troppo lontana per fare un lavoro del genere, nonostante sarebbe proprio il suo specifico quello di elaborare strategie; la Provincia e le Comunità montane sono in disarmo (per scelta della Regione) e nella riforma delle Uti poco e niente viene detto sul ruolo di sviluppo dei nuovi enti.

Chi salverà dunque la montagna dal disastro? È chiaro che la collettività dovrà investire una grande quantità di risorse per invertire (nell’interesse di tutti) il trend negativo delle Terre alte, ma per evitare altri disastri occorre ripensare allo sviluppo territoriale.

Non serve a nulla finanziare le strutture (specie con scarsi vincoli, col risultato che in pochi anni tornano ad essere abitazioni private) se non si spinge anche sulla formazione degli operatori turistici (di marketing, linguistica, per il miglioramento qualitativo di tutti i servizi…) e sulla crescita nel territorio, attorno alle stanze dell’albergo, di attività e proposte che possano riempire le giornate dei visitatori costruendo un vero e moderno prodotto turistico che incontri la domanda dei vacanzieri, sempre più esigente.

Di certo, in montagna, non è tempo di tagli, ma anzi di un urgente «piano Marshall» che affronti la situazione drammatica delle terre alte partendo innanzitutto dalla valorizzazione delle persone che, a volte eroicamente, rimangono radicate nelle loro valli e sugli impervi pendii.

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