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Regione

“Esodo istriano, stessi esiti di una deportazione”

L’esodo degli italiani da Fiumi, Istria e Dalmazia fu uno “spostamento forzato di popolazione, ce è diversa nelle modalità dalla deportazione e dall’espulsione, ma che conduce al medesimo risultato, creando condizioni ambientali che inducono il gruppo bersaglio alla partenza”. Così lo storico Raoul Pupo, nell’orazione ufficiale per la celebrazione del Giorno del Ricordo che si è tenuta nell’aula del Consiglio regionale. 

L’esodo degli italiani da Fiumi, Istria e Dalmazia fu uno “spostamento forzato di popolazione, ce è diversa nelle modalità dalla deportazione e dall’espulsione, ma che conduce al medesimo risultato, creando condizioni ambientali che inducono il gruppo bersaglio alla partenza”. Così lo storico Raoul Pupo, nell’orazione ufficiale per la celebrazione del Giorno del Ricordo che si è tenuta nell’aula del Consiglio regionale. La cerimonia ha visto l’intervento dell’esule Erminia Dionis Bernobi, che ha raccontato all’aula la sua vicenda di italiana nata nel 1931 a Santa Domenica di Visinada d’Istria, nella provincia di Pola, e dal 1946 residente a Trieste. Bernobi ha ricordato che “il mio arrivo a Trieste è stato a dir poco drammatico, dopo una fuga rocambolesca dal mio paese natale, di notte, attraverso i boschi, perché la mia storia si intreccia alla storia con la S maiuscola. La mia terra d’Istria, infatti in quegli anni ha vissuto una tirannia terribile sotto i partigiani slavocomunisti di Tito in cui dominavano ingiustizie, prevaricazioni, soprusi e violenze di ogni tipo, soprattutto ai danni degli italiani”. 

“Aver inaugurato questa stagione delle testimoianze – ha detto il presidente del Consiglio, Pier Mauro Zanin consegnando a Erminia Dionis Bernobi il sigillo del Consiglio regionale – ci aiuterà ad assumerci fin in fondo la responsabilità della nostra storia, sia di quella positiva che di quella negativa. Perché anche grazie al contributo di questi testimoni la comunità regionale sia cosciente del lavoro che ancora dobbiamo compiere”.

Di seguito l’intervento completo dello storico Raoul Pupo

Ringrazio il Presidente per l’onore che mi è stato fatto affidandomi questo incarico. Le competenze e la sensibilità dei componenti questo consesso mi esimono dal soffermarmi in dettaglio sugli aspetti fattuali delle vicende di cui oggi parliamo. Inoltre, sarebbe del tutto improprio che io mi limitassi a riproporvi i temi della memoria, perché la memoria è per sua natura soggettiva, e quanto in bocca ad un testimone è ricordo dolente e commosso, se espresso da un estraneo può sembrare artificio retorico, e la retorica è nemica della verità. Preferisco quindi proporvi alcune brevi riflessioni sul significato profondo di questa giornata, alla luce delle acquisizioni più mature della storiografia. Partiamo da una domanda di fondo: che cos’è che si vuole davvero commemorare nel Giorno del Ricordo? Al di là dell’elenco di eventi presente nella legge istitutiva, che parla di foibe, di esodo e di altre vicende, quello su cui si vuol richiamare all’attenzione dei connazionali è il fenomeno storico di cui tutti quegli eventi sono espressione: vale a dire, la catastrofe dell’italianità adriatica, cioè la sua scomparsa dai territori dell’Adriatico orientale, ad eccezione delle attuali province italiane di Trieste e Gorizia. Per evitare equivoci, precisiamo subito che per italianità adriatica intendiamo la forma storicamente assunta nel XIX e XX secolo da una presenza italiana di assai più lunga data sulle sponde orientali dell’Adriatico. Connotati tipici di tale presenza secolare, fra loro strettamente connessi, erano soprattutto i seguenti: 1) Il carattere marittimo, in un contesto storico in cui, fin dalla prima antichità, ricchezze, idee, innovazione venivano dal mare; 2) L’inclusività, perché la sua origine era doppia: in parte etnica, vale a dire la continuità con il popolamento romanzo, ben evidente nelle 2 2 principali città; in parte frutto di integrazione degli apporti provenienti sia dal mare (penisola italica e Mediterraneo orientale) che dall’entroterra 3) Il carattere urbano, anche questo in continuità con la tradizione prima romana e poi dei comuni medievali italiani, secondo la quale la città è il fulcro di quella che, appunto, viene chiamata vita civile o, più semplicemente, civiltà 4) Il potere, vale a dire l’egemonia sociale, culturale e politica Le comunità italiane così connotate cominciarono a nazionalizzarsi prima culturalmente e poi anche politicamente nel corso dell’800, ma tale processo s’intrecciò con un altro processo simile, quello dello slavismo adriatico, che presentava caratteristiche diverse: era espressione dell’entroterra, con le sue peculiarità linguistiche e culturali; era etnicista, cioè aveva adottato la concezione tedesca della nazione (sangue e terra), mentre gli italiani facevano riferimento alla concezione volontarista di origine francese (plebiscito di ogni giorno); partiva da una condizione di assoluta subordinazione sociale, culturale e linguistica, ma poteva contare su di una numerosità decisamente superiore. Quello adriatico era quindi un tipico caso di nazionalizzazione parallela competitiva sul medesimo territorio, come in tante altre parti dell’Impero asburgico, e questo generava conflitti, come nel resto dell’Impero. La prima crisi dell’italianità adriatica si ebbe già a fine ‘800 in Dalmazia, perché la nazionalizzazione delle masse croate, combinata con l’allargamento del diritto di voto anche ai meno abbienti, portò rapidamente per gli italiani alla perdita dell’amministrazione dei comuni maggiori, con l’esclusione di Zara. La situazione era più favorevole agli italiani in Istria e Trieste, ma anche qui il prendere corpo di quella che veniva avvertita come la “minaccia slava” suscitò un’ampia mobilitazione per la “difesa 3 3 dell’italianità” e spinse alcuni gruppi, soprattutto giovanili, verso l’irredentismo, vale a dire a battersi per il distacco del territorio giuliano dall’Impero asburgico e l’annessione alla Madrepatria italiana. Dopo la I guerra mondiale l’italianità adriatica risultò trionfante nella Venezia Giulia, a Fiume ed a Zara, annesse appunto all’Italia, mentre completò la sua crisi nei territori dalmati assegnati al Regno dei serbi, croati e sloveni. Il collasso dell’italianità dalmata rendeva evidente come il passaggio da uno stato multinazionale come l’Impero asburgico, ad uno stato per la nazione, come la Jugoslavia, si traduceva in un netto peggioramento delle condizioni delle comunità nazionali minoritarie, nonostante alcune forme di protezione internazionale. La conferma viene da quel che successe in Italia, dove forme di tutela non esistevano ed anzi lo stato fascista avviò una politica sistematica di distruzione delle identità nazionali concorrenti a quella italiana. Ci riuscì in parte, ed ebbe successo soprattutto nel convincere le popolazioni slovena e croata dell’equivalenza fra italianità e fascismo. Durante la seconda guerra mondiale l’italianità adriatica tentò di assumere una dimensione imperiale, con le annessioni in Slovenia, Croazia e Montenegro, destinate a completare il dominio del “mare nostrum” assieme al controllo italiano dell’Albania e delle isole Ionie. L’Italia fascista non era però in grado di reggere tale dimensione e tutta la costruzione imperiale collassò dopo due anni, l’8 settembre del 1943, trascinando con sé nel disastro buona parte dell’italianità adriatica. La seconda guerra mondiale rappresenta quindi il momento di svolta nella storia dell’italianità di frontiera e ciò per almeno tre ragioni: 1) ribaltò gli equilibri di potenza fra Italia e Jugoslavia; 2) rovesciò gli equilibri di potere sul territorio a danno degli italiani; 4 4 3) fece compiere un salto di qualità nell’uso della violenza politica: mentre prima della guerra la dimensione prevalente era stata quella dello squadrismo, con la guerra, che sul fronte orientale ebbe caratteristiche di sterminio, si passò allo stragismo. Possiamo considerare la capitolazione italiana del settembre 1943 come l’inizio della fine dell’italianità adriatica, per due motivi principali: 1) italiani passarono dall’egemonia del potere alla mancanza di potere: il controllo del territorio e la capacità decisionale vennero infatti da quel momento contesi fra tedeschi e jugoslavi, mentre gli italiani poterono solo cercare di infilarsi negli interstizi; 2) tutta l’area di frontiera uscì quasi completamente dalle dinamiche della storia italiana, per entrare in quelle della storia jugoslava. Quest’ultimo aspetto lo vediamo benissimo nelle crisi chiamata delle “foibe istriane” del settembre ’43. In questo caso, l’occupazione partigiana/jugoslava di buona parte dell’Istria portò all’estensione alla Venezia Giulia delle pratiche di lotta comunemente adottate dai partigiani nel corso della guerra di liberazione/guerra civile/rivoluzione in Jugoslavia. Tali pratiche prevedevano nelle zone anche solo temporaneamente liberate, l’immediata eliminazione dei “nemici del popolo”. Questa era una categoria di origine bolscevica e staliniana estremamente flessibile, che nel caso dell’Istria riguardava alcuni segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai partigiani, per il loro ruolo nel regime e nella società locale e comunque ritenuti pericolosi per il nuovo potere. Quella delle foibe fu quindi una violenza dall’alto, programmata ed organizzata, anche se poi gestita in un clima di grande confusione, lasciando spazio a motivazioni personali, d’interesse e criminali. Le vittime furono alcune centinaia, il che ci impone di parlare di stragi e al tempo stesso di notare come gli obiettivi della repressione 5 5 fossero circoscritti, per ragioni contingenti, a quelli che venivano considerati i casi più urgenti. Nondimeno, i propositi e la loro attuazione risultano esemplificativi di quello che era un disegno generale: vale a dire non l’eliminazione della presenza italiana tout court, ma la distruzione dell’italianità, in quanto storicamente connessa con il potere. Le foibe istriane, possiamo anche considerarle come una prova generale di dopoguerra; e difatti, nel maggio 1945, al momento dell’occupazione jugoslava della Venezia Giulia, noi vediamo la ripresa delle medesime dinamiche dell’autunno ‘43, questa volta su scala più ampia e con l’utilizzo della forza del nuovo stato comunista jugoslavo. Nuovamente, si ebbe l’estensione alla Venezia Giulia delle pratiche repressive connesse alla presa del potere in Jugoslavia da parte del fronte di liberazione a guida comunista. Questa fu accompagnata da una grande ondata di violenza politica che nell’arco di poche centinaia di chilometri fra l’Isonzo, la Slovenia e la Croazia fece circa 9.000 morti fra gli sloveni domobranzi, almeno 60.000 fra i croati ustascia ed alcune migliaia fra gli italiani (contando sia gli infoibati che i deceduti in prigionia o scomparsi nel nulla) Si trattava chiaramente di violenza di stato, programmata dai vertici del potere politico jugoslavo fin dall’autunno del 1944, organizzata e gestita da organi dello stato (Ozna). Sta in questo la sua differenza sostanziale con l’ondata di violenza politica del dopoguerra nell’Italia settentrionale. Quest’ultima infatti può venir interpretata come resa dei conti di una guerra civile iniziata negli anni ’20 ed anche come tentativo di alcuni segmenti del partigianato comunista di influire sui termini della lotta politica in Italia, ma non era inserita in alcun disegno strategico di natura rivoluzionaria, perché il PCI in Italia non doveva fare la rivoluzione. Viceversa, nella Venezia Giulia come nel resto della Jugoslavia, quella violenza era strumento fondamentale per il successo della rivoluzione ed il consolidamento del nuovo regime. 6 6 Nei territori adriatici quindi lo stragismo aveva finalità punitive nei confronti di chi era accusato di crimini nei confronti dei popoli sloveno e croato (quadri fascisti, uomini degli apparati di sicurezza e delle istituzioni italiane, ex squadristi, collaboratori dei tedeschi); aveva finalità epurative dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad esempio gli antifascisti italiani contrari all’annessione alla Jugoslavia, ed aveva finalità intimidatorie nei confronti della popolazione locale, per dissuaderla dall’opporsi al nuovo ordine. Le foibe furono tragedia e terrore, ma non intaccarono in maniera sostanziale l’italianità adriatica. Questa invece venne compromessa dalle politiche di lungo periodo attuate dall’amministrazione jugoslava nei territori rimasti sotto il suo controllo dopo gli accordi di Belgrado del 9 giugno 1945. Scartata nel 1944 la strada dell’espulsione totale degli italiani (come invece venne previsto per i tedeschi), la strategia ufficiale jugoslava era quella della “fratellanza italo-slava”. Questa va intesa come una politica di integrazione selettiva, che prevedeva appunto l’integrazione nel nuovo regime di una minoranza nella minoranza (quelli che venivano chiamati gli italiani “onesti e buoni”, disponibili a mobilitarsi per l’annessione alla Jugoslavia e la costruzione del socialismo) e la persecuzione della maggioranza della minoranza italiana (cioè quelli che venivano chiamati i “borghesi” ed i “residui del fascismo”, che non desideravano né il socialismo, né l’annessione alla Jugoslavia). Non si trattava quindi di una politica di eliminazione globale della presenza italiana, quanto piuttosto di una politica di distruzione dell’italianità adriatica, così come si era storicamente configurata, perché giudicata incompatibile con le finalità del nuovo regime. Questo infatti era promotore di una duplice rivoluzione, nazionale e sociale, perché si rendeva interprete delle storiche rivendicazioni dei movimenti nazionali sloveno e croato, antagoniste a quelle del movimento italiano, e perché intendeva rivoluzionare l’assetto 7 7 tradizionale della società, fondato sulla supremazia “borghese” italiana. Agli italiani considerati accettabili veniva quindi proposta di una nuova forma di identità nazionale, in tutto e per tutto subordinata e fondata sul rifiuto dell’esperienza storica del Risorgimento e dell’unificazione italiana, perché quest’ultima era sfociata nell’imperialismo, nel fascismo e nella scelta capitalista del dopoguerra. Il regime quindi permetteva in linea teorica che in Jugoslavia rimanessero alcuni italiani, ma solo se nemici dichiarati dell’Italia. Inoltre, i diritti nazionali venivano riconosciuti non a tutti coloro che si sentivano italiani, ma solo agli italiani etnici, con l’esclusione quindi di tutti quelli di anche lontana origine slava, che viceversa dovevano venire “aiutati”, anche se non lo volevano, a “recuperare” la loro identità originaria. Si trattava quindi di condizioni di accettabilità molto stringenti, aggravate dal fatto che dell’applicazione della politica della “fratellanza”, elaborata dai massimi vertici del partito, fu incaricata la classe dirigente locale, che però ci credeva poco. Questa infatti era composta dai quadri proveniente dall’esperienza partigiana, che si distinguevano per l’estremismo ideologico e nazionale e per l’incapacità di mediazione. Da ciò un’infinita serie di abusi, puntualmente quanto inutilmente registrata dai dirigenti di più alto livello, perché una classe politica alternativa non esisteva. I limiti intrinseci della politica della “fratellanza” e la modalità della sua applicazione vennero nel loro insieme percepiti dalla popolazione italiana come un attacco globale alla propria identità nazionale. A questo vanno aggiunte le condizioni generali di difficoltà sperimentate da tutta la popolazione locale, per le difficoltà economiche, l’applicazione del “comunismo di guerra”, la crisi della proprietà privata, la pianificazione dell’agricoltura, la paralisi dell’industria, la diffusione del lavoro coatto, l’oppressione poliziesca, la persecuzione religiosa, la crisi del Cominform. 8 8 Tutto questo determinò una situazione di invivibilità generalizzata, che innescò fin dall’immediato dopoguerra una serie di partenze più o meno legali e spesso di fughe clandestine, purtroppo anche con esito infausto; ma soprattutto trovò uno sfogo con l’applicazione del diritto di opzione per la cittadinanza italiana previsto dal trattato di pace, che consentiva il trasferimento legale nella Penisola. In questo modo, gli italiani finirono per trovarsi di fronte all’alternativa fra perdita della terra natale e rinuncia alla loro identità nazionale, intesa in senso lato, culturale, sociale ed antropologico e non solo politico. La conseguenza fu una decisione plebiscitaria per l’esodo, che trascinò con sé anche alcune aliquote di non italiani che mal sopportavano il regime comunista. Va subito precisato comunque, che quella dell’esodo non può venir considerata una scelta libera da costrizione, bensì una tipologia specifica di spostamento forzato di popolazione, che è diversa nelle modalità dalla deportazione e dall’espulsione, ma che conduce al medesimo risultato, creando condizioni ambientali che inducono il gruppo bersaglio alla partenza. L’esodo ha rappresentato la fine dell’italianità adriatica, ma la non fine della tragedia degli italiani adriatici. Dopo il dramma dell’esodo infatti, c’è stato quello dell’esilio. L’esilio è sempre un’esperienza di sofferenza, che nel caso dei giuliano-dalmati è stata spesso aggravata da forme di rifiuto, sia di natura ideologica, da parte di chi li considerava fascisti in fuga dal paradiso del socialismo, sia di natura antropologica, in quanto diversi per dialetto e costumi, capitati in un’Italia a sua volta gravemente immiserita dalla guerra. Tale fu la durezza della loro condizione, che alcune migliaia di esuli non poterono sopportarla e dovettero prendere la via dell’emigrazione transoceanica. Solo poi, negli anni ’60, gli anni delle provvidenze di stato e del boom economico, arrivò l’integrazione degli esuli nella realtà italiana: un’integrazione molto buona sotto il profilo socio-economico, ma a 9 9 prezzo della ferita della memoria. Nessuno, o pochi appena, conoscevano infatti quali storie di dolore stessero dietro la vita dei profughi ed essi stessi a lungo preferirono non parlarne, perché la loro tragedia era fonte di fastidio per gli italiani che desideravano gettarsi alle spalle i ricordi bui della guerra, della sconfitta e del dopoguerra. L’atto riparatore da parte delle istituzioni è arrivato appena nel 2004 con l’istituzione del Giorno del Ricordo. Certamente, nulla può sanare del tutto quella ferita della memoria, così come niente può ripagare della terra perduta; ma almeno celebrazioni come quella odierna possono esprimere il riconoscimento pubblico della sofferenza subìta da chi troppo ha pagato per voler rimanere italiano. Al tempo stesso, la grande mobilitazione di iniziative che si è realizzata sul territorio della Penisola testimonia l’impegno a reincorporare nella memoria collettiva il dramma dell’italianità adriatica. Per concludere, nelle giornate memoriali, a lungo andare è sempre implicito il rischio della ritualità, che genera assuefazione e disinteresse. Nel nostro caso, questo è superabile attraverso due vie. La prima, è quella di utilizzare una storia localizzata, com’è quella della frontiera adriatica, quale chiave di accesso per intendere la grande storia del ‘900: la crisi degli imperi multinazionali, i limiti degli stati per la nazione, le politiche di semplificazione nazionale, gli urbicidi (perché la sorte di Zara, Fiume, Pola è simile a quella di Könisberg, Danzica, Leopoli, Smirne). La seconda via, è quella di accogliere la lezioni che vengono da questa storia dolente: prima fra tutte, la forza devastante dell’intolleranza, che parte dalle parole ed arriva ad atti estremi, e poi le conseguenze oscure della volontà di omologazione ad ogni costo, che ha distrutto quel patrimonio immenso di civiltà che in tutta l’Europa orientale era costituito dalle sue diversità, e lungo l’Adriatico orientale era rappresentato dall’italianità. 10 10 Una lezione questa tanto più importante per noi, dal momento che quei fantasmi stanno ricominciando ad agitarsi nella nostra società contemporanea.

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