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Opinioni

Giornalisti, presidio che ci aiuta a scegliere. Il Terzani ai reporter uccisi a Gaza

“Nel buio la democrazia muore”: recita così il motto del Washington Post diventato nel 2019 protagonista di uno spot andato in onda durante il SuperBowl che spiegava il senso del nostro mestiere di giornaliste e giornalisti. Raccogliere i fatti per portare al pubblico la storia, non importa il costo. Perché la conoscenza ci dà potere, sapere ci aiuta a decidere, conoscere ci libera. Una missione al centro della resistenza dei tanti colleghi e colleghe di Gaza che nonostante il costo che questo comporta, nonostante dal 7 ottobre 2023 siano già stati uccisi 232 giornalisti — un numero più alto rispetto alla somma di quelli morti durante la guerra civile americana, la Prima e Seconda guerra mondiale, la guerra in Corea, quella in Vietnam, in Jugoslavia e in Afghanistan dopo l’11 settembre — scelgono di continuare a raccontare quello che succede e che si vorrebbe nascondere. Come ad esempio i quindici operatori sanitari uccisi a Rafah lo scorso 23 marzo, freddati mentre tentavano di soccorrere le vittime di un precedente attacco e poi gettati in una fossa comune, che secondo le Forze di difesa israeliane non avevano segnali di emergenza attivi, mentre è stato poi dimostrato che il convoglio procedeva a sirene spiegate ed era più che riconoscibile. Come il fatto che sono 65 giorni che a Gaza non entrano aiuti umanitari, non entrano acqua cibo e carburante per i generatori degli ospedali, la maggior parte dei quali sono stati distrutti. Ormai, come racconta quotidianamente su Repubblica Rita Baroud, giornalista freelance sfollata da Gaza City a Khan Younis, e come hanno raccontato qualche giorno fa su Inviato Speciale Azzurra Meringolo e Massimo Vasciaveo della Rai, la situazione soprattutto per quanto riguarda l’acqua potabile è tragica: i pozzi sono stati distrutti o si sono prosciugati, le reti idriche sono state interrotte o contaminate dalle fognature, si vedono bambini con le bottiglie di plastica che corrono per raccogliere anche le gocce che cadono dalle rare autocisterne d’acqua che girano per la Striscia. E bevono anche se l’acqua è torbida, perché la sete ora fa più paura dei bombardamenti. Sia Baroud che Meringolo e Vasciaveo, come tutti gli altri giornalisti, non possono entrare a Gaza: è la prima volta che succede.

Per questo la testimonianza dei colleghi e delle colleghe che sono dentro la Striscia è ancora più importante: perché nessuno possa un giorno dire che non sapeva che la maggior parte degli oltre 50 mila palestinesi ammazzati erano donne e bambini, che i massacri non si fermavano nonostante tutti sapessero, che le case venivano distrutte con le persone ancora dentro.

Per questo il Premio Terzani ha deciso di assegnare il riconoscimento della sua 21ª edizione alla memoria dei giornalisti e delle giornaliste uccise a Gaza, perché come ha detto Angela Terzani Staude, presidente della giuria, «mai, nella storia, il tributo pagato dal giornalismo è stato così pesante».

Un prezzo pagato nell’esercizio di un diritto, quello all’informazione, che è un presidio essenziale alla libertà di tutti, come ha affermato il presidente Mattarella ricordando Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assassinati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio mentre stavano realizzando un’inchiesta sul traffico di rifiuti in Somalia. Per aiutarci a scegliere da che parte stare, un antidoto alle rimozioni collettive e ai depistaggi, uno strumento come diceva Pulitzer «contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo». Per provare a restare umani.

Fabiana Martini

Portavoce per il Friuli Venezia Giulia di «Articolo 21. Il dovere di informare, il diritto ad essere informati»

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