Ho letto recentemente la notizia di un sondaggio informale dove si evidenzia che circa il 70% di coloro che hanno utilizzato l’intelligenza artificiale, l’ha ringraziata almeno una volta.
Nello stesso giorno due genitori mi hanno raccontato di aver trovato, al loro ritorno a casa dal lavoro, un bigliettino scritto da Giovanni, 8 anni: “Grazie, mamma e papà, perché mi abbracciate quando ne ho bisogno”.
Mi sono chiesta che rapporto c’è tra questi due atteggiamenti: ringraziare l’intelligenza artificiale è come ringraziare i genitori, i figli, un amico? Che rapporto c’è tra la riconoscenza e la gratitudine?
Tutte le persone con cui ho parlato, in questi giorni, hanno giustamente evidenziato la differenza tra i due atteggiamenti, mettendo in luce che il primo è solo un atto di cortesia, mentre il secondo è un sentimento all’interno di una relazione.
In un tempo di parole urlate, di scarso riconoscimento per il valore dell’altro, iniziare a dire “grazie” e “per favore” anche ad uno “strumento” che non cambierà risposta per la nostra gentilezza, mi sembra possa essere considerato un piccolo embrione di gratitudine. Forse il semplice gesto di ringraziare, ogni giorno, ci può educare alla possibilità di accogliere ciò che accade nelle nostre giornate, nei nostri incontri e nella nostra vita, anche se apparentemente insignificante. Quel “grazie” non aiuterà lo “strumento” a lavorare meglio, o a darci una risposta più corretta, ma potrebbe aiutare noi a guardare il mondo con occhi diversi.
Occhi che non danno per scontato quanto ricevono, che sia un buongiorno detto con un sorriso, un messaggio inatteso, un caffè offerto quando abbiamo bisogno di parlare, un abbraccio non richiesto ma desiderato.
Continuiamo pure -se vogliamo- a ringraziare chatGPT, o il tostapane, l’auto o anche l’aspirapolvere, se ci alleniamo a ritrovare nel cuore dei “grazie”, alla vita, al mondo, alle persone che abbiamo accanto, a Dio. Continuiamo a farlo, se non ci fa dimenticare che ogni giorno possiamo lasciare un bigliettino a qualcuno che ci ha fatto del bene, magari senza rendersene conto. Continuiamo a farlo, se poi non pensiamo solo a quanto dovremmo essere ringraziati e invece non lo siamo, aprendo i nostri occhi per accorgerci di quanto riceviamo. Continuiamo pure a farlo se, per ogni grazie detto ad uno “strumento”, cerchiamo nel nostro cuore un volto, una voce, una carezza. Se poi sappiamo alzare gli occhi dal dispositivo che stiamo usando e ci impegniamo per offrire ai più piccoli il respiro della gratitudine, la capacità di alzare lo sguardo, di vedere l’altro e non solo se stessi, di coltivare il desiderio e l’attesa. Se scriveremo anche noi un bigliettino a nostro marito, nostro nipote, a un amico, in cui diremo, semplicemente, grazie.
Che la festa del ringraziamento che celebriamo in questi giorni nelle nostre comunità ci aiuti a ricordare che la gratitudine è un atteggiamento che va coltivato. Dissodando il terreno dell’autosufficienza e dell’indifferenza, imparando ad osservare, attendere, osando piantare rari semi di empatia e speranza. Nei solchi di quella terra potremo apprendere il lavoro quotidiano di porre germogli buoni, sapendo che il nostro impegno, che è necessario, si intreccia con ciò che ci viene offerto e donato.
La festa del ringraziamento, infine, è celebrata alle porte dell’inverno. Quando il raccolto è compiuto, certo, ma forse anche a ricordarci che quando arriva un tempo più buio e più freddo, è proprio lì che dobbiamo custodire i germogli della gratitudine. Quando è tempo di piantare semi nuovi, sapendo alimentare l’attesa e la speranza che, presto o tardi, una nuova vita riuscirà ad affiorare dalla terra per portare il segno della primavera.
Allenarsi a dire grazie













