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Opinioni

La passione per gli ultimi e la sfida della complessità. C’è bisogno dei cattolici

Intendiamoci. Quello che segue non è un ragionamento argomentato a supporto di una tesi; né contiene una mole di dati che consentano di leggere con piglio scientifico una trasformazione che attraversa la nostra società. È piuttosto l’esposizione di una percezione, di un modo di vedere le cose elaborato a partire da alcune esperienze dirette, di uno sguardo che pretende solo di essere raccontato e che ricerca semmai una condivisione o una critica.

Eccolo. Credo che alcune delle difficoltà che la nostra società, friulana e italiana, si trova oggi ad affrontare dipendano dal dissolvimento progressivo di una generazione di cattolici, soprattutto giovani. Mi spiego. Le nostre parrocchie, i movimenti cattolici, gli oratori, i centri estivi e i campi-scuola – al netto del loro valore come catene per la trasmissione della fede – sono stati per decenni anche luoghi in grado di valorizzare e sfornare talenti e professionalità: la passione per il Vangelo assorbita e vissuta in ambiti extrafamiliari da ragazzi e ragazze ha prodotto generazioni di adulti appassionati agli ultimi, disposti magari a lavorare per pochi denari, magari in situazioni di precarietà, entro ambiti di servizio nei quali predominava però l’attenzione per le persone più in difficoltà. Penso in particolare a come la formazione cristiana ricevuta nell’adolescenza da molti della mia generazione abbia prodotto sensibilità nei confronti dell’handicap, del disagio mentale, della sofferenza, dell’infanzia, dell’educazione. Producendo bravi e appassionati operatori sociali, medici, infermieri e infermiere, maestri, educatori, preti, politici, volontari, persone dunque con la passione per gli ultimi, disposte in tanti casi a lavorare per anni o addirittura per tutta la vita a servizio di cause che altri consideravano perse. Erano spesso proprio gli ambienti parrocchiali a fornire quella valorizzazione, quella motivazione, quella sobrietà che spingeva in direzione di un certo modo di intendere la vita e il lavoro.

La conseguenza immediata per la società era di poter disporre di una riserva consistente di persone in grado di affrontare con spirito ed energia la complessità. Persone che avevano negli anni della formazione metabolizzato lo spirito di servizio come missione e che riversavano poi quel senso di misura ed equilibrio entro una società matura; che mettevano davanti all’interesse personale il senso di responsabilità, la comprensione e l’attenzione nei confronti dell’altro.

Ora, di questo strato sociale, sottile ma fondamentale, una certa mancanza si sente: di fronte alle sfide della contemporaneità sembrano infatti prevalere troppo spesso le posizioni estreme, quelle meno inclini al compromesso, quelle incapaci di cogliere qualità nelle posizioni altrui e di leggere la complessità con gli occhi del buon senso. Viene così meno un livello necessario per l’equilibrio sociale, indispensabile soprattutto per il carico di responsabilità, speranza e dedizione che è in grado di mettere in campo quando si tratta di affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Se la società si orienta in senso inclusivo, se le persone si collocano entro dimensioni empatiche, estroflesse e non introverse, la società tutta ha di che guadagnare. Non sarà mica un caso che certi servizi pubblici in Italia, da sempre in grado di garantire coesione sociale e terzietà rispetto alle contrapposizioni ideologiche, si trovino in una fase di crisi? La scuola pubblica, la sanità pubblica, ad esempio, non reggono solo sulla base di modelli di governo efficientisti, ma funzionano a partire dalla passione degli operatori coinvolti: non sono solo luoghi di lavoro ma anche di crescita, di autoformazione, di socialità, di condivisione, di inclusione.

Attenzione, non voglio dire che ciò oggi sia irrimediabilmente perso. Anzi. Non mi metto tra quelli che condannano i giovani d’oggi perché troppo futili, troppo interessati a se stessi e fissati più sull’immagine che sulla sostanza. Né ritengo che le parrocchie o i movimenti abbiano smesso di sfornare giovani appassionati al Vangelo e disposti a giocarsi la vita per gli altri. No, non lo credo.

Forse il punto è un altro. Lo pongo in termini di domanda. Magari l’interrogativo non è così drammatico, ma credo sia giusto porselo: dove sono finiti i cattolici? Perché da presenza attiva, visibile e permanente nella società sono diventati sempre meno significativi, incapaci di opporsi al trend dominante? E quanto male fa tutto ciò oggi alla società del nostro paese?

Luca De Clara

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