E un altro anno di scuola se ne sta andando! Sembra l’inizio di un ritornello scontato, dove si conclude il bilancio con un “bravi tutti!”, con un “abbiamo fatto quello che potevamo!” o con una serie caustica di “sì, però…”. Sì, anche quest’anno siamo riusciti a lavorare bene, ad avviare progetti nuovi, a condividere, però… Con quel velo di malinconia che ti fa guardare più a ciò che manca che a ciò che c’è.
E allora proviamoci, proviamo a mettere in riga qualche questione aperta, che investe la scuola friulana e quella dell’intero paese. Con atteggiamento critico ma propositivo. Ecco il mio elenco.
Numero uno: siamo ancora una comunità educante. Nonostante tutti gli sforzi per demolire questa visione, la scuola italiana si percepisce ancora come una comunità. Frastagliata, sfilacciata certo, in continua tensione, tra nuove (o vecchie) politiche imposte dal centro e slanci di autonomia, tra entusiasmo e stanchezza, complessità in crescita e capacità di affrontarla che si spunta continuamente. Eppure comunità, comunità che si sente inadeguata ma che problematizza; comunità che procede ma che non smette di interrogarsi, sul futuro, su se stessa. Comunità intergenerazionale e interclassista, esposta ai venti delle mode e alle sfide del contemporaneo. Eppure consapevole di essere un mondo, una risposta, un antidoto al tempo che passa e che consuma. Non un semplice servizio erogato dallo stato: troppo facile pensarlo solo in questi termini!
Numero due: la nostra è una scuola con pochi figli e tanti genitori. L’autunno demografico che incombe, almeno in Friuli, che ci racconta di istituti accorpati e numeri in caduta libera, fa il paio con una presenza oggettivamente sempre più “nervosa” dei genitori. Pensate, solo per fare un esempio, alle conseguenze negative dell’introduzione del Registro Elettronico: uno strumento utilissimo, che fornisce in tempo reale la situazione delle valutazioni, delle assenze, dei permessi dello studente, ma allo stesso tempo deresponsabilizzante, perché fotografa ma non spiega, non media. E ha tolto ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze la semplice responsabilità di arrivare a casa e “raccontare” che hanno preso quattro o hanno preso otto. Si sa tutto, subito: ma si sa veramente? Le famiglie e i genitori hanno un ruolo fondamentale nel sistema-scuola eppure sembra che si fidino sempre di meno. È un bene o un male?
Numero tre: l’intelligenza artificiale questa sconosciuta. Tutti la usano (magari inconsapevolmente), tutti ne parlano: è l’argomento dell’anno (o forse del secolo). È entrata prepotentemente nelle nostre vite e gli effetti già si vedono. Figuriamoci se il suo nastro di nero asfalto poteva lasciare da parte la scuola! Con l’IA cambieranno il modo di apprendere e quello di lavorare; spariranno professioni e molte altre dovranno adattarsi. Siamo nel pieno di una rivoluzione che coinvolge i saperi e la comunicazione ma ancora non ne capiamo molto: la scuola, in questo ambito, può essere un laboratorio di sperimentazione, per cogliere gli aspetti positivi della questione ed evidenziare quelli potenzialmente negativi. Diamole fiducia e diamole il tempo.
Numero quattro: i fondi PNRR, un’occasione sprecata. Non dovrei aggiungere altro: le vagonate di milioni riversate una tantum sulla scuola italiana a mio parere cambieranno poco. Avrebbero potuto essere spesi su azioni strutturali, permanenti, ipotizzando di continuare a sostenere quanto promosso e avviato con finanziamenti correnti anche negli anni a venire. Ma continueranno ad esserci questi soldi? Per la formazione, l’arricchimento dei curricoli, l’orientamento, i concorsi? Sono stati accesi dei fuochi, anche importanti e lungimiranti, ma ci saranno le risorse per alimentarli? Ne dubito.
Numero cinque: complessità e stanchezza. A volte mi chiedo se sia l’età e mi rispondo che sì, è sicuramente anche l’età. Scopro però che questa complessità che avvolge e innerva anche il mondo della scuola è sempre più energivora. Da insegnante, da studente, da bidello, da dirigente: le cose da tenere sotto controllo sono sempre di più, i rapporti da curare anche, le minacce a cui stare attenti manco si contano! La comunità c’è – lo dicevo prima – ma è costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. E chi si scopre inadeguato al ritmo e alla “personalità” che la scuola sempre più richiede a volte fugge: la scuola non è più camera di compensazione della società, non è luogo facile dove trovare un ruolo, relazioni, comprensione a buon mercato, ma sta diventando il luogo da cui sempre più persone vorrebbero uscire, anche solo con azioni simboliche, anche solo con la fantasia. La mia è una provocazione: “andare fuori” non è la soluzione ma la sfida da cogliere, per sperimentare qualcosa di diverso rispetto al modello-aula, al modello-classe, ai dispositivi noti, dal punto di vista didattico e degli atteggiamenti.
Numero sei (ultimo, ma lunghetto e pieno di speranza): i divari ci sono ma possono diventare un’opportunità di cambiamento. Un’indagine seria, recentemente condotta da Fondazione Agnelli e Fondazione Rocca e presentata alle istituzioni a fine maggio, aveva l’obiettivo di riconoscere i fattori (“individuali e familiari degli studenti, nei contesti territoriali, ma anche fra le scuole e dentro le scuole”) che spiegano i divari di apprendimento nel nostro Paese.
La ricerca mostra che ci sono grandi divari (fra nord e sud, fra scuole dello stesso indirizzo e addirittura fra classi dentro ciascuna scuola), ma anche che le singole scuole, nella loro autonoma capacità di organizzazione, possono fare la differenza. Il tema, per gli autori dell’indagine, non è tanto di aumentare il numero degli insegnanti o le risorse, quanto incidere appunto sull’organizzazione: i casi analizzati mostrano che la leadership dei dirigenti, la capacità di lavorare in team e l’apertura della scuola a esperienze formative esterne sono caratteristiche determinanti per il successo degli studenti, anche nei contesti più fragili.
Tra le azioni positive individuate dallo studio come motori per il contrasto dei divari di apprendimento e per promuovere una didattica efficace vi sono ad esempio: l’affermazione di “un modello organizzativo ispirato a logiche cooperative fra dirigenti e docenti”, orientato alla creazione di un clima scolastico positivo, a una gestione unitaria degli istituti con più indirizzi, a un’efficace comunicazione con le famiglie; “una gestione dinamica e proattiva delle risorse finanziarie e materiali”, capace di orientare i progetti finanziati dall’esterno in base ai veri fabbisogni della scuola, integrati ovviamente con attività aggiuntive proposte da ogni singola istituzione; una “gestione collegiale della didattica e dei curricoli” per favorire una più efficace declinazione degli obiettivi dell’indirizzo di studio in contenuti e priorità di apprendimento coerenti con i bisogni della scuola, attraverso modelli didattici comuni progettati dai docenti, che diano centralità alle competenze di base e alla personalizzazione degli apprendimenti; “attività extracurricolari ricche e dinamiche”, in rete con gli enti locali, con le imprese, il mercato del lavoro locale e i soggetti del terzo settore, orientate alle competenze di base e al supporto degli studenti più svantaggiati.
In definitiva, dall’indagine di Fondazione Agnelli e Fondazione Rocca viene un invito a puntare sullo sviluppo di un’autonomia “accompagnata” che, oltre a venire rafforzata da un riconosciuto, anche sul piano degli incentivi, middle management della scuola a supporto della dirigenza, proceda in modo differenziato e non generalizzato (che, anziché ridurli, rischierebbe invece di ampliare i divari). Questa la conclusione: le scuole impegnate in un processo di innovazione complessivo della didattica, degli ambienti di apprendimento, della governance, con una maggiore autonomia, sarebbero in grado, se sostenute e monitorate, di “aprire percorsi verso un nuovo modello scolastico a vantaggio dell’intero sistema”.
E scusate se è poco!
Luca De Clara