Un messaggio di speranza che attraversa le mura del carcere, un dialogo profondo sulle fragilità umane e sulla forza della fede: è questo il cuore del secondo incontro di catechesi che l’arcivescovo di Udine, mons. Riccardo Lamba, ha voluto condividere con una ventina di detenuti della casa circondariale di Tolmezzo giovedì 15 maggio 2025.
Accompagnato dal cappellano, padre Claudio Santangelo, e dai volontari Bruno Temil e Cornelio Bellina, l’arcivescovo ha riflettuto sul tema centrale del Giubileo, la speranza, calandolo nella realtà concreta di chi vive la privazione della libertà, spesso accompagnata da profonda sofferenza. Hanno partecipato all’incontro la responsabile dell’area educativa della casa circondariale, Domenica Baldassarre, insieme ad un’educatrice dell’istituto.
Un interrogativo decisivo: che cos’è sperare in carcere?
L’Arcivescovo ha subito posto ai presenti una domanda centrale: «Cosa significa sperare in carcere?» Un interrogativo tutt’altro che scontato, soprattutto dove il dolore sembra prendere il sopravvento. Mons. Lamba ha paragonato la speranza a quell’ultima forza che resta anche quando tutto sembra crollare, come accade a chi vive una malattia grave o un evento drammatico: proprio in quei momenti, la speranza rischia di spegnersi.
Le risposte dei detenuti: fede, attesa, luce nel buio
Eppure, da questa domanda sono emerse testimonianze autentiche e toccanti. Alcuni detenuti hanno parlato della speranza quotidiana di non commettere più errori e di poter un giorno tornare a una vita libera. Altri hanno espresso la fiducia in un Dio che sostiene loro e le loro famiglie o il desiderio di una pace interiore che solo un giudizio divino imparziale potrà portare. Un’altra voce ha definito la speranza come luce nel disorientamento, una guida che la fede riesce ad accendere quando tutto appare oscuro.
Il tunnel e il navigatore: una metafora per il cammino della fede
Raccogliendo queste riflessioni, l’Arcivescovo ha utilizzato un’immagine concreta e incisiva: quella del tunnel in cui il navigatore perde il segnale. Anche se non si vede la fine, sapere che altri hanno già percorso quella strada e sono giunti a destinazione permette di non perdere la fiducia. «Non dovete vivere questa esperienza come un fatto isolato – ha detto mons. Lamba – altri l’hanno vissuta prima di voi e sono riusciti ad andare oltre. Non lasciatevi prendere dall’incertezza».
Un’altra potente immagine è stata quella della paternità: generare figli senza conoscerne il futuro, ma confidando che la vita offrirà loro delle possibilità. «Avete desiderato la vita dei vostri figli – ha ricordato l’Arcivescovo – perché credevate che avrebbero trovato la loro strada. Questa è Speranza».
Il dolore dei legami spezzati e la preghiera come ponte
Durante l’incontro, un detenuto ha condiviso la fatica di mantenere vivi i legami familiari dietro le sbarre. Un altro ha ampliato la riflessione, parlando di quelle situazioni in cui la mancanza di autonomia rende difficile anche solo coltivare relazioni. La domanda posta dal Vescovo è tornata con forza: «Come si può vivere la speranza in un luogo di sofferenza?»
Alcuni hanno trovato la risposta nella preghiera, riscoperta durante la reclusione come strumento per restare uniti ai propri cari e per nutrire serenità interiore. Una pratica che, hanno detto, sperano di mantenere anche dopo la liberazione, pur consapevoli delle sfide del mondo esterno.
La speranza si nutre di relazioni
Mons. Lamba ha insistito sull’importanza degli affetti: proprio in carcere, ha detto, può spezzarsi la speranza, perché è lì che si fa più acuta la mancanza delle relazioni familiari. Ha confidato di essere stato profondamente colpito dal gesto con cui i detenuti si sono abbracciati all’inizio dell’incontro, segno tangibile di un bisogno umano profondo: quello di essere in relazione.
Da qui l’invito ad aprire la speranza al “dopo”, a guardare oltre la reclusione, alle opportunità che il Signore può offrire anche nelle situazioni più buie. Per farlo, l’Arcivescovo ha evocato la figura evangelica di Zaccheo, uomo che aveva sbagliato, ma che ha ricevuto la salvezza di Cristo. «Gesù – ha detto – non guarda alla fedina penale, all’età, alla condizione sociale. Egli desidera avere un rapporto personale con ciascuno di voi. Anche se le relazioni familiari vi mancano, per Lui non esiste muro o sbarra che possa impedirgli di dire: ‘Voglio entrare a casa tua’».
La salvezza – ha spiegato – non è un benessere materiale, ma una certezza profonda: «Ti voglio bene per il solo fatto che ci sei». È un amore incondizionato che rincorre l’uomo ovunque si trovi, anche nel silenzio notturno della cella, quando Dio sussurra: «Ti voglio bene».
Un amore che non delude, una speranza che non muore
«Possiamo essere in ospedale, disorientati da una diagnosi tremenda, possiamo aver fatto scelte sbagliate, ma in ogni istante – ha ribadito con forza l’Arcivescovo – Gesù è vicino a noi, e ci dirà sempre: ‘Ti voglio bene’, senza condizioni». È questa certezza, ha detto, il fondamento stesso della speranza, oggi e per l’eternità.
Uno dei detenuti ha voluto condividere un ricordo commovente: la visita di un’artista venuta per dipingere un murales, la quale, colpita dal dolore di un carcerato per un bimbo malato, promise di pregare per lui. Tempo dopo, tornò con un’immaginetta mariana da inviare al padre del bambino, portando la notizia della regressione della malattia. Un piccolo segno di come Dio agisca nei cuori anche in contesti inaspettati.
Una conclusione di fede e comunione
L’incontro si è concluso con la preghiera del Salmo 40, particolarmente significativo per il vissuto dei presenti, e con il canto mariano “Santa Maria del cammino”, accompagnato dalle note dell’organo. Un momento di intensa spiritualità, di comunione e di fiducia rinnovata: anche oltre le sbarre, la speranza può continuare ad ardere.
B.T.