Mai come quest’anno i primi giorni di maggio hanno portato nella nostra Europa ricordi di un passato lontano che si sono intrecciati con le preoccupazioni e le speranze per il futuro.
L’8 maggio 1945, ottant’anni fa, la Germania nazista firmava la sua capitolazione al termine del conflitto mondiale che aveva provocato: capitolazione che veniva resa nota il giorno dopo, ad un continente distrutto. Da allora il 9 maggio è per tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico la Giornata della vittoria nella “grande guerra patriottica”, così in Russia è chiamata, spogliandola del suo ormai scomodo significato ideologico, la vittoria di Stalin su Hitler.
Quest’anno la celebrazione di quella guerra lontana, che costò all’URSS oltre venti milioni di morti, ha avuto un significato del tutto particolare. Molti auspicavano che potesse essere l’occasione perché Vladimir Putin annunciasse se non la fine, almeno una tregua sostanziosa nella guerra scatenata contro l’Ucraina: ne è venuta solo una misera sospensione, e poco osservata, di tre giorni degli scontri. Così il percorso che può portare alla fine di questo conflitto, che si svolge a qualche centinaio di chilometri da qui, sembra ancora tutto da individuare.
Da questa parte dell’Europa il 9 maggio è invece la ricorrenza della Dichiarazione di Schumann, la festa dell’Unione europea. Il ministro degli esteri francese Robert Schumann propose 75 anni fa, con un sintetico documento, di condividere senza barriere doganali, tra i Paesi che volessero aderirvi, la produzione di carbone e acciaio, eliminando di fatto uno dei motivi storici che avevano scatenato la guerra tra Francia e Germania. La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), primo nucleo della Comunità, sorse l’anno successivo, con il significato politico di far sì che tra i due grandi Paesi europei la guerra fosse «non solo impensabile, ma materialmente impossibile».
A questa già densa concentrazione di memorie, si è aggiunta, l’8 maggio, l’elezione del successore di Francesco al Soglio pontificio. Nel suo saluto alla folla di Piazza San Pietro Leone XIV, il cardinale Robert Prevost, ha pronunciato sette volte la parola “pace”, sferzando la coscienza di un’Europa frastornata dalle notizie che giungono dall’abisso palestinese e dalla ripresa dell’endemico conflitto tra India e Pakistan, una ferita aperta anche quella da quasi ottant’anni, e mai rimarginata.
Non è dunque un compleanno di salute e serenità, per la nostra settantacinquenne od ottantenne Europa.
L’illusione che la frattura che ci aveva lasciato il secondo conflitto mondiale tra le due parti del continente si fosse saldata nel 1989-91, con la fine dei regimi di Mosca e Belgrado, è ormai svanita del tutto. Abbiamo creduto che la guerra, questa antica compagna delle nostre terre e dei nostri popoli, fosse un ricordo di altri tempi, non una cosa per le nostre sedicenti consapevoli democrazie, per le nostre “avanzate” pubbliche opinioni.
Invece siamo a discutere se tornare ad investire pesantemente in armamenti, e come: basandoci sui nostri ormai professionistici eserciti nazionali o con un vero esercito europeo? Dalle profondità del passato torna perfino l’idea di riformare l’esercito di leva, quello inventato dai francesi nella loro rivoluzione del 1789.
Dove sono finiti quegli ideali di pace e fratellanza fioriti negli anni sessanta e e settanta, annunciati nella Prima marcia della Pace tra Perugia e Assisi del 1961, e cioè che «il pacifismo e la nonviolenza non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta» (A. Capitini)? E’ possibile, nell’età della crisi della globalizzazione, del nuovo dualismo americano-cinese, pensare ad un’Europa sostanzialmente demilitarizzata, senza più l’ombrello americano a proteggerci?
«La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano» scriveva in quella Dichiarazione Robert Schumann, con parole che sottolineano come la costruzione della pace richieda sforzi continui e quotidiani. Saprà continuare a farsene carico la nostra provata, anziana, ma per questo, speriamo, saggia Europa?
Andrea Zannini
Docente di Storia dell’Europa all’Università di Udine