L’obbedienza? «È la virtù che ha segnato la mia vita», riconosce, con viva soddisfazione, mons. Andrea Bruno Mazzocato, vescovo da 25 anni, arcivescovo emerito di Udine.
Da oltre un anno vive a Biadene, ai piedi del Montello trevigiano. Ammette di essere rimasto «affascinato» dal Friuli, che continua ad amare e a frequentare per servizio pastorale. Era il 9 dicembre 2000 quando l’allora vescovo di Treviso, mons. Paolo Magnani, consacrò vescovo don Andrea Bruno, allora rettore del seminario. Venticinque anni dopo, mons. Mazzocato presiederà una Santa Messa di ringraziamento lunedì 8 dicembre, solennità dell’Immacolata Concezione, alle ore 17 in Cattedrale a Udine (si potrà anche ascoltare in diretta su Radio Spazio).
Alla Vita Cattolica, sull’edizione del 3 dicembre 2025, mons. Mazzocato rilascia un’ampia intervista, a firma di Francesco Dalmas, in cui sottolinea tra l’altro che «l’obbedienza è la virtù che ha segnato la mia vita».
Qui un estratto dell’intervista
Eccellenza, da un Anno Santo (quello del 2000) all’altro. Due date fondamentali: dal punto di vista di impegno pastorale, ma anche umano. Lei nel 2000 era rettore di un seminario molto fecondo. È stata una sorpresa l’elezione a vescovo?
«È stato impegnativo accettare di cambiare vita, come mi veniva proposto. È stata la più impegnativa delle scelte di obbedienza della mia vita. Mi preoccupava la responsabilità a cui ero chiamato. Anche perché non rientrava nelle mie prospettive. Debbo dire che mi ha aiutato molto quell’Anno giubilare con la riflessione sull’impegno della Chiesa per il nuovo secolo che si apriva».
Dopo 25 anni si è pentito di aver detto di sì a Giovanni Paolo II che glielo chiedeva attraverso mons. Magnani?
«No, debbo ammettere che non mi sono pentito. Ma allora mi chiedevo se avevo le capacità per svolgere questo servizio. E mi dicevo: bisogna avere coraggio per dire di sì. Con la consacrazione a vescovo ho avvertito la presenza dello Spirito Santo e mi sono sentito più leggero».
I primi tre anni li ha maturati nella Diocesi di Rovigo. L’apprendistato, se così posso chiamarlo, è stato efficace.
«Sì. Tanto che ricordo ancora il profondo silenzio, quasi di sconcerto, dei sacerdoti quando ho dovuto annunciare, nel 2003, che venivo trasferito a Treviso. Non conoscevo nulla di Rovigo e del Polesine. Ho pertanto cercato la collaborazione più sincera con i sacerdoti. E l’ho subito trovata. Questa, d’altra parte, è la priorità per un vescovo. Ho potuto visitare tutte le parrocchie e si è creato un rapporto altrettanto cordiale con le comunità».
Quand’è arrivato a Rovigo ha trovato tre seminaristi. Quando ha lasciato, quanti erano?
«Erano 12. Siccome non c’era un seminario vero e proprio, li ho accolti nella mia casa e ho fatto un po’ di vita comune con loro e con gli educatori. Ho potuto così conoscerli e accompagnarli».
Dopo 3 anni è ritornato nella sua terra, a Treviso. Felice o con qualche apprensione?
«Per me è stata un’altra obbedienza impegnativa alla quale ho cercato anche di resistere. Alla fine mi sono abbandonato ancora alla volontà del Papa che ho sempre considerato volontà di Dio».
Nemo propheta in patria, si dice.
«Conoscevo tutti. Ma ritornavo da vescovo, con altro ruolo. Anche rispetto a tutti i preti amici per i quali ero il “don Bruno” di sempre. Non è stato semplice trovare un equilibrio nuovo tra questa relazione e la responsabilità che mi spettava. Devo dire che alla fine, grazie anche alla disponibilità dei sacerdoti trevigiani, eravamo arrivati ad una buona intesa».
Passano sei anni e nel 2009 Benedetto XVI, che l’aveva conosciuta ed apprezzata anche nel suo soggiorno a Lorenzago, la invia in Friuli. Terra per lei misteriosa, come confessò, ma che ha cominciato subito ad appassionarla. E ad amare.
«Ero stato una volta a Udine per l’ordinazione di mons. Soravito e due volte a Castelmonte, in pellegrinaggio. Quello era tutto il Friuli che conoscevo. Il mio primo impegno, dunque, è stato quello di capire dov’ero capitato. Ho avuto l’intuizione di avviare una veloce visita pastorale, dedicando il venerdì, il sabato, la domenica fino a mezzogiorno a ciascuna forania. Prima incontravo i sacerdoti, poi visitavo ogni chiesa dove immancabilmente trovavo dei fedeli. E loro mi raccontavano le vicende delle rispettive comunità: l’emigrazione, la guerra e i partigiani, le problematiche sociali, il terremoto e la ricostruzione. Ho visitato circa 600 chiese e devo confessare che dal popolo ho conosciuto il Friuli e la Diocesi di Udine».
L’intervista integrale si può leggere sulla Vita Cattolica del 3 dicembre 2025













