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Chiesa

60 anni di sacerdozio per mons. Brollo, il prete delle 5.30

Ampia intervista sulla Vita Cattolica. Al Friuli mons. Brollo augura«che riesca a tener fede alla sua cultura. Una cultura, non dimentichiamolo, impastata anche di fede, di speranza. Appartenenza che non vuol dire chiusura. Tutt’altro. Ma dobbiamo stare attenti, noi friulani, a non diluirci in una comunità più vasta, più ampia. Significherebbe non avere più individualità, personalità».

Lo sapevate che mons. Pietro Brollo, arcivescovo emerito di Udine, diventò prete, 60 anni fa, alle 5.30 del mattino? Il duomo di Tolmezzo, che in quell’alba si riempì comunque di fedeli, torna ad affollarsi  questa domenica, 19 marzo, ma questa volta in orario canonico, alle 11, per partecipare alla solenne messa di ringraziamento di «don Pieri», come viene ancora chiamato Brollo dagli amici.

Eccellenza, 60 anni fa, a quell’ora del mattino, le chiese si aprivano soltanto per celebrare i matrimoni problematici.

«Sì, oggi non sarebbe immaginabile un’ordinazione alle 5.30 del mattino. All’epoca era fattibile. È stata una necessità. L’arcivescovo mons. Giuseppe Zaffonato si era appuntato la data, il 17 marzo 1957, giorno in cui tutti i compagni del seminario romano, che frequentavo nella capitale, venivano ordinati preti. Ma se n’era poi dimenticato ed aveva introdotto la visita pastorale a Sappada. Dopo un lungo parlare, anche con mons. Santini allora rettore del seminario a Udine, si decise di programmare la celebrazione alle 5.30».

E, nonostante l’ora, lei trovò il duomo strapieno di parrocchiani, di amici.

«Era, fra l’altro, una delle prime volte in cui le ordinazioni sacerdotali avvenivano fuori dalla cattedrale».

La chiesa, il Duomo di Tolmezzo che cosa ha rappresentato nella sua vita?

«Ha rappresentato… la mia vita. In questo Duomo sono stato battezzato, ho fatto la prima Comunione, ho ricevuto la cresima, quindi l’ordinazione sacerdotale, ho celebrato la prima Messa. Qui ho frequentato il catechismo e sono stato formato alla vita umana e cristiana. È tutt’oggi un punto di riferimento significativo, importante».

La sua vocazione come è nata?

«In quinta elementare dovevo decidere quale scuola intraprendere. Per entrare nelle medie si doveva fare, all’epoca, l’esame di ammissione. Mio papà insegnava alle scuole professionali. Teoricamente ci sarei dovuto andare anch’io. Ero un po’ timido e in famiglia non sapevo come dire che avrei preferito frequentare le medie, perché avvertivo già un qualche desiderio di entrare in seminario».

Non mi dica che faceva anche lei gli altarini…

«Sì, come altri bambini del tempo. Ero anche un chierichetto molto fedele. Partecipavo la domenica a due messe, quella delle 8, del fanciullo, e quella delle 10.30, la “messa grande”. Al pomeriggio si seguiva il vespero e con ansia si aspettava la fine del rito per andare a vedere un pezzo di partita».

E da allora lei è rimasto fervente calciofilo, oltre a diventare, poi, provetto sciatore. Ma come andò quell’esame di ammissione alle medie?

«Lo superai e le medie le ho frequentate alle scuole pubbliche. Era tempo di guerra e la faccenda era complicata. Quarta e quinta ginnasio, invece, le ho fatte dai Salesiani. In seminario sono entrato per la prima liceo».

Ma perché voleva farsi prete?

«Mi interessava lavorare con i ragazzi, con i giovani. Talvolta mi dicevo che si poteva fare anche senza essere preti, ma col passare del tempo non trovavo soddisfazione in questo convincimento. Sono stato tentato anche di farmi Salesiano».

Suo padre che cosa insegnava?

«Tecnica di falegnameria. Ed era un lavoro che sarebbe piaciuto anche a me. Se non avessi frequentato le medie, avrei seguito la sua strada. A me piace la manualità, tanto che lo seguivo d’estate, perché la formazione professionale continuava».

La sua prima Messa se la ricorda ancora?

«Come no! Due giorni dopo l’ordinazione, il 19 marzo, festa di San Giuseppe. Una celebrazione solenne, come si usava all’epoca. Il parroco mons. Tonutti non voleva che si facessero foto, ne ho una di straforo».

Neanche dell’ordinazione?

«No, era proibito farle».

È stato difficile fare la prima omelia?

«L’omelia della Messa me l’ha fatta il cappellano, don Giovanni Nicoletti. Io ho fatto la riflessione durante i Vespri del pomeriggio, come si usava. Il tema era la pagina evangelica del Tabor. Ricordo che dissi: una giornata come questa è come il Tabor che mi carica per poter andare avanti».

Non si è mai pentito di essere diventato prete?

«No».

E vescovo?

«Non ho mai desiderato né voluto incarichi. Sono stato sempre fedele a questo principio: di sentirmi sempre un mandato. Non ho trafficato per fare una cosa o l’altra. E se sono mandato, faccio quello che riesco, quello che posso. Quando mi hanno chiesto di diventare vescovo ricordo che mi sono detto: devo accettare o rispondere di no?».

La prima risposta?

«È inutile, mi sono detto, tirarla per le lunghe. Se sei mandato, non puoi che accettare. E così ho fatto quando mi hanno chiesto di andare a Belluno».

E quando le hanno chiesto di ritornare a casa?

«Non era facile accettare, ma sono ricorso, anche in quell’occasione, al mio principio: come mandato non posso rispondere di no, farò quello che posso con l’aiuto del Signore».

Si sente un «mandato» anche da pensionato? Un prete va in quiescenza?

«No, un prete, come tale, non può andare in pensione. Certo, c’è il riposo che è vitale, ma resta il tempo per continuare ad “esercitare”».

La solitudine del pensionato?

«Beh, qualche volta la avverto. Ma può fare anche bene».

Com’è la Messa da pensionato?

«Ho una cappellina in casa, ma preferisco celebrare dalle suore, in Duomo o dove ancora mi chiamano, perché la mensa è bello condividerla».

La vocazione al sacerdozio sembra in crisi…

«Un attimo. Sembra che qualcosa si muova. Anche da noi. Ma, attenzione, non è del tutto vero che mancano i grandi numeri delle vocazioni. È vero, invece, che sono calati i giovani. La crisi demografica è lì a dimostrarlo. Quindi percentualmente ci siamo».

I preti friulani, con la loro vivacità, sono un problema o un’opportunità?

«Sono una ricchezza. Anche nella loro originalità. Non sono facilmente inquadrabili, però si può contare su di loro».

Vanno amati per la loro passione…

«Certo, certo. Anche perché hanno un sovraccarico tremendo di lavoro. Quindi vanno compresi, pure nella fatica».

Era difficile, da vescovo, ridistribuire i sacerdoti nelle parrocchie?

«…Ringrazio il Signore di essere in pensione. Sì, è difficile chiedere determinati sacrifici ai sacerdoti, specie se hanno una certa età. Mi capitava di chiedere lo spostamento una prima volta, una seconda, una terza e sentirmi sempre dire di no. Il mio non era un capriccio. Capivo le difficoltà di chi mi stava davanti. Ma c’erano esigenze precise e pressanti delle comunità. Cominciai a dirmi, prima di lasciare: adesso arriverà un vescovo nuovo e sarà la prima volta che chiederà qualcosa a qualcuno… Per la verità ho anche seguito un principio di mons. Battisti».

Quale principio?

«Occupato, non preoccupato. Un principio di saggezza, come uomini di Chiesa».

Lei ha vissuto in prima persona il terremoto. L’ha cambiata come prete?

«L’ho vissuto per gran parte a Gemona. È stata un’esperienza faticosa, ma entusiasmante per certi aspetti. Ho sempre trattenuto il ricordo della gente impegnata a ricostruire, a far rinascere la sua casa, il suo paese. Ho ancora in memoria la grande meraviglia per i sì che ricevevo quando mi rivolgevo all’una o all’altra persona chiedendo di impegnarsi anche nella rinascita della comunità, ad esempio nell’associazionismo. Non ho mai ricevuto un no. Tanto che a ricostruzione quasi completata, mi chiedevo preoccupato: che cosa accadrà adesso alla mia gente, i friulani si siederanno di nuovo in poltrona e diventeranno dei semplici borghesi, senza più mordente?».

Perché la montagna friulana preferisce, oggi, dire dei no, anziché dei sì?

«Il problema è la denatalità. È lo spopolamento. E sinceramente non so come questi fenomeni, con quel che ne segue sul piano economico e sociale, possano essere recuperati. Ritengo, purtroppo, che la sofferenza sulle terre alte sarà lunga e sempre più dolorosa. Ci sono paesi che stanno arrivando al limite di rottura».

Limite di rottura?

«Sì, là dove si creano condizioni che non permettono più di rimanere sul posto».

Dall’alto dei suoi 60 anni di prete, che cosa augura alla sua Chiesa madre?

«Che riesca a tener fede alla sua cultura. Una cultura, non dimentichiamolo, impastata anche di fede, di speranza. A volte espressa, a volte no, ma sempre presente nel modo di essere e di fare, di pensare. Non sempre viene vissuta esteriormente. È importante anche che resti il senso di appartenenza ad una comunità».

La comunità friulana, intende?

«Sì. Appartenenza che non vuol dire chiusura. Tutt’altro. Ma dobbiamo stare attenti, noi friulani, a non diluirci in una comunità più vasta, più ampia. Significherebbe non avere più individualità, personalità».

Lei crede davvero che i friulani abbiano conservato queste specificità, o meglio questi valori?

«Basta guardarsi intorno. Quante pievi, quante chiese. Ma non solo, quanta voglia di conservarle al meglio, di valorizzarle. E questo non è motivo forse di speranza?».

Francesco Dal Mas

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