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Politica

De Bortoli a «la Vita Cattolica»: “Con il sì al referendum politica sempre più autoreferenziale”

Su “la Vita Cattolica” in edicola giovedì 13 ottobre, ampia intervista (di Anna Piuzzi) sul referendum costituzionale con l’ex direttore di Corriere della Sera e Sole 24 Ore, Ferruccio De Bortoli, che aprirà a Udine venerdì 14 ottobre, alle 18 al Centro Paolino d’Aquileia (via Treppo) l’anno accademico della Spes. «Con l’Italicum avremo il 60-70% dei nuovi deputati che saranno eletti grazie ai capilista bloccati e alle candidature plurime dai segretari di partito e quindi non ci sarà una scelta dell’elettore. Questo sarà più marcato nel Senato perché avremo senatori eletti indirettamente», sostiene De Bortoli.

Le «mie critiche nei confronti della riforma sono legate soprattutto alla perdita di peso specifico della democrazia rappresentativa nel nostro Paese». Va dritto al cuore della questione più spinosa della riforma costituzionale Ferruccio De Bortoli, già direttore del «Corriere della Sera» e de «Il Sole 24 ore», oggi presidente dell’Associazione Vidas e della casa editrice Longanesi, che venerdì 14 ottobre, alle ore 18 sarà a Udine, al Centro culturale Paolino d’Aquileia per inaugurare, assieme al giurista Marco Olivetti, il nuovo anno di studi della Spes, la Scuola di Politica ed Etica sociale della Diocesi di Udine. Deficit di democrazia dunque e perplessità su un Senato che rischia di essere un «dopolavoro» delle regioni, ma anche il nuovo centralismo come scelta «necessaria» di fronte a un cattivo uso della legislazione concorrente da parte di alcune regioni: un’analisi a tutto tondo sulla riforma costituzionale nell’intervista rilasciata da De Bortoli a «La Vita Cattolica».

De Bortoli, un Senato che non sparisce, ma che si trasforma in Senato delle regioni e dei comuni, c’è chi dice che saranno maggiormente rappresentati i territori e le autonomie locali. È davvero così? Nonostante un nuovo accentramento di poteri in capo allo Stato?

«Come prima cosa va detto che le regioni a statuto speciale non sono state toccate, per il Friuli è una buona notizia, per l’impianto della riforma meno, nel senso che gli statuti speciali, pensati nel dopoguerra, meriterebbero una rivisitazione, e non mi riferisco allo specifico del Friuli-Venezia Giulia, ma in particolare alle regioni meridionali. È chiaro che la riforma costituzionale riporta in seno allo Stato alcune competenze che un’altra sciagurata riforma costituzionale, del 2001, aveva distribuito dissennatamente alle autonomie locali. Dobbiamo però anche dire con molta chiarezza che non tutte le autonomie locali sono uguali: ci sono buone autonomie e pessime autonomie e di questa legislazione concorrente molte regioni hanno fatto un cattivo uso. Questo passaggio che prevede la fine di una competenza concorrente tra Stato e Regioni – che ha prodotto una quantità inenarrabile di ricorsi alla corte costituzionale – è certamente un passaggio positivo. È positivo anche il fatto che le regioni virtuose possano avanzare e richiedere maggiori autonomie, ma certamente questa è una riforma di carattere centralistico, che porta a un ridisegno dei rapporti tra Stato e regioni sventolando – secondo me in maniera improvvida – un Senato che dovrebbe teoricamente rappresentare le autonomie locali, ma che io temo possa essere un “dopolavoro” delle regioni stesse. Questo per il sistema elettorale che verrà probabilmente scelto e per il fatto che i nuovi senatori saranno nominati all’interno dei consigli regionali, probabilmente le “seconde file” dei consiglieri regionali, tenendo conto che poi il nuovo Senato subirà gli smottamenti delle varie elezioni regionali che si terranno in tempi sfasati. Io credo che riportare potere al centro sia stata una scelta di necessità, è stato però sbagliato non rivedere gli statuti speciali; è positivo che ci possa essere per le regioni più virtuose un avanzamento nella loro capacità di promuovere l’autonomia, ma credo, altrettanto, che la riforma, che ha l’intento di ridurre il contenzioso con la Corte costituzionale, per me, al contrario, finirà per aumentarlo».

A essere messo in discussione è anche il livello di partecipazione dei cittadini.

«Infatti, le mie critiche nei confronti della riforma sono legate soprattutto alla perdita di peso specifico della democrazia rappresentativa nel nostro Paese. Con l’Italicum noi avremo il 60-70% dei nuovi deputati che saranno eletti grazie ai capilista bloccati e alle candidature plurime dai segretari di partito e quindi non ci sarà una scelta dell’elettore. Questo deficit di rappresentatività lo avremo in maniera più marcata nel Senato perché avremo senatori eletti indirettamente dai Consigli regionali e dai Comuni. Tra l’altro io mi pongo la domanda: un buon presidente di regione o un buon sindaco saranno ovviamente preoccupati di stare nelle loro città, non andranno certo cinque giorni a Roma. È dunque probabile che da questo punto di vista ci sia una delega su persone meno impegnate, “le seconde file” e questo porterà un problema di qualità intrinseca dei nuovi senatori che, tra l’altro – visto che non superiamo il bicameralismo paritario –, saranno chiamati a occuparsi di questioni delicate laddove è previsto, per tutta una serie di materie, il doppio voto; soprattutto il voto in materie che riguardano i rapporti fra Stato e Regioni e Stato, Regioni ed Unione europea. Da questo punto di vista non abbiamo solo un deficit di rappresentatività, ma anche un deficit di preparazione specifica dei nuovi senatori. Il tema della rappresentatività è quindi estremamente delicato perché, se da una parte è giusto rafforzare i poteri dell’esecutivo – obiettivo principale della riforma –, dall’altro è giusto non perdere il contatto con gli elettori e le istituzioni e prevedere anche delle compensazioni in forma di democrazia diretta. La riforma prevede un diverso regime per il referendum abrogativo, prevede anche la possibilità di arrivare a un referendum propositivo o a nuove norme per le leggi di iniziativa popolare, ma sono tutti aspetti demandati ad una ulteriore e molto in là nel tempo riforma di carattere costituzionale».

Nonostante tutti questi rilievi e nonostante tutte le perfettibilità della legge di riforma costituzionale ci viene detto che è fondamentale votare «sì» perché altrimenti per riformare il Paese ci vorranno almeno altri dieci anni. Non è questo una sorta di ricatto?

«Se siamo una democrazia compiuta il cittadino è libero di esprimere le proprie scelte e dunque credo che debba decidere in condizioni di assoluta libertà, sulla base del quesito referendario posto, cioè se cambiare o meno i 47 articoli della riforma. Se dovesse decidere con un altro spirito, ad esempio preoccupandosi di più della conseguenza del proprio voto, probabilmente questo cittadino sarebbe forse più responsabile, ma certamente meno libero. Allora noi avremmo un referendum un po’ forzato che quasi ha la forma del plebiscito, cioè: “State con me o state contro di me?”. Questa è una deriva che nella campagna elettorale dei prossimi mesi spero verrà scongiurata, perché vorrebbe dire che il cittadino è posto di fronte alla scelta tra un percorso di riforme più o meno condiviso e il caos. Credo invece che, anche dopo il 4 dicembre, anche se dovesse esserci una sconfitta dell’attuale Governo, ci sarebbe sempre un Parlamento, sempre un Governo in carica. In una democrazia c’è sempre una buona alternativa. Mi rendo però conto che avendo personalizzato, al di là di tutto, questo appuntamento e avendolo caricato, soprattutto all’estero, di così tanti significati, credo si voterà anche un po’ per necessità e sarà un peccato perché quando siamo chiamati a votare per un referendum confermativo in materia costituzionale, siamo chiamati a decidere su regole che non valgono solo per noi, per l’oggi, ma per loro natura, essendo leggi costituzionali, dovranno valere per generazioni. Decidiamo di regole che dovranno valere per 50 anni, ma siamo chiamati a votare sotto ricatto di condizioni di un singolo avvenimento, di un singolo anno, di una frazione molto piccola della storia di un paese».

Ecco, parlando di generazioni, se dovesse passare il «sì» alla riforma che cosa rimarrebbe dei valori e della visione politica che animarono i padri costituenti e che per tante generazioni hanno disegnato il funzionamento del nostro Paese?

«Lo spirito dei costituenti, che è tutto racchiuso nella prima parte della Costituzione, non viene toccato. Certo, forse cambia surrettiziamente la forma di Governo che non è più di carattere parlamentare. Cambiano le disposizioni attuative che riguardano l’organizzazione dello Stato, le sue diramazioni. Io credo che questa riforma sia scritta in molte parti assai male. Ci rimane il ricordo di costituenti che sotto la spinta della Liberazione, della fine della guerra, pur divisi da ideologie ferocemente contrapposte, seppero trovare un momento di unità, uno spirito nazionale e furono capaci di costruire un disegno costituzionale che è durato almeno 70 anni. Ci rimane il rimpianto di aver perso, anche se la prima parte rimane immutata, questa aura di costituenti in grado di dare una svolta verso una nuova stagione positiva della nostra democrazia e ci rimane l’incapacità di scrivere regole con chiarezza, in maniera incisiva. Questo dà l’idea della perdita di peso specifico e culturale della nostra classe dirigente, non soltanto politica; e l’incapacità di scrivere leggi che poi vengano applicate perché le leggi sono qualcosa di astratto che va poi calato nella vita di tutti i giorni, se sono scritte male sono come un abito disegnato male che mal si accompagna alle fattezze della società».

Anna Piuzzi

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