Tra le molte questioni complesse che il nostro Paese si trova attualmente ad affrontare (tra queste, la glaciazione demografica e l’invecchiamento della popolazione, la crescita della povertà, la permanente assenza di serie politiche per una gestione razionale e non emergenziale dei flussi migratori), ve n’è una che assume un valore cruciale, intersecando trasversalmente le altre, ed è quella dell’occupazione femminile.
A tal proposito, i dati relativi all’Italia sono sconfortanti, tanto nell’ambito dell’Unione Europea, quanto a livello mondiale; il Global Gender Gap Index del World Economic Forum, su 146 Paesi, nel 2023 ci collocava al 79° posto; l’indicatore specifico relativo alle opportunità economiche ed al lavoro femminile, poi, ci vedeva al 104° posto. Attualmente, quasi una donna su due non ha un lavoro esterno alla famiglia, con evidenti riflessi anche sul livello di indipendenza economica: cosa questo comporti quando una donna voglia sottrarsi ad una situazione di violenza familiare si può lasciare all’immaginazione dei lettori. I dati della nostra Regione sono indubbiamente migliori: ad esempio, l’occupazione femminile supera il 63%; tuttavia, permane un significativo divario con quella maschile, di oltre dieci punti. Si registra inoltre ancora un importante differenziale salariale, quantificato da una recente indagine dell’Ires FVG, con riguardo al settore privato, in circa 9.500 euro all’anno in media. Quali le cause? Sono molteplici e note da tempo; tra queste, l’incidenza più elevata tra le donne del lavoro part-time (tra i part-timers, sono più di 9 su 10); la maggiore presenza tra le lavoratrici di forme di lavoro instabile e precario; la segregazione occupazionale, sia verticale che orizzontale, che vede le donne concentrarsi maggiormente nelle posizioni di carriera inferiori (le donne dirigenti sono ancora meno di un quarto del totale) ed in settori dove le retribuzioni sono meno elevate. Quanto poi al lavoro autonomo, le imprese femminili sono poco più di un quinto del totale, ma spesso si tratta di imprese piccole o piccolissime.
Si tratta di una situazione che chiama in causa in primis i decisori politici, che dovrebbero valutare con attenzione l’impatto di genere delle scelte di allocazione delle risorse, anche per la rilevanza trasversale di cui si diceva: infatti, le indicazioni europee ci dicono che più le donne hanno adeguate opportunità di occupazione, più sono propense ad avere dei figli; inoltre, una crescita dell’occupazione femminile andrebbe ad impattare in modo importante in termini economici sulla ricchezza delle famiglie e del Paese; infine, per le donne migranti, adeguate politiche di formazione ed inclusione lavorativa possono costituire un significativo volano di integrazione socio-economica e culturale. Si tratta dunque di intervenire, con lucidità e lungimiranza, su molteplici piani: il supporto all’occupazione ed alle carriere femminili; gli investimenti sulle infrastrutture sociali di cura; il contrasto agli stereotipi di genere in ogni ambito (non dimentichiamo, incidentalmente, che siamo ancora in attesa che il legislatore della nostra Regione provveda finalmente all’introduzione della doppia preferenza di genere nelle elezioni del Consiglio regionale, questione non più eludibile); il sostegno alla presenza delle ragazze nei percorsi formativi tecnico-scientifici (c.d. STEM); l’attenzione per le nuove cittadine. Un programma certamente impegnativo, ma da esso dipende il futuro del nostro Paese.
Roberta Nunin
Professoressa Ordinaria di Diritto del lavoro nell’Università di Trieste e Presidente della Commissione Pari Opportunità del Comune di Udine