Abbonati subito per rimanere sempre aggiornato sulle ultime notizie
L'editoriale

L’editoriale della settimana

di

Il Friuli 47 anni dopo

Pubblicato su “la Vita Cattolica” nr. 18/2023

Il 6 maggio tutto il Friuli, ma soprattutto i friulani che hanno vissuto sulla loro pelle il terremoto e il post terremoto, ricorderà il cataclisma che alle 21.01 di 47 anni fa ha distrutto una buona parte del Friuli e ha procurato mille morti. L’epicentro, il cratere principale, si estendeva da Venzone a Gemona (), Artegna, Magnano in Riviera e da Bordano, Trasaghis, Osoppo fino a Montenars.

Ma tutto il Friuli subì uno shock spaventoso. Quella notte fu una notte tragica. I paesi terremotati si ritrovarono al buio con le case distrutte e i propri cari travolti dalle macerie. Ma non era il momento di lasciarsi andare o di consegnarsi ai lamenti o alle imprecazioni. Si cominciò subito a scavare a mani nude e alla luce delle torce o dei fanali delle auto. E poi la corsa all’ospedale con i feriti. Dal sisma erano stati investiti 4.800 kmq (il 62% del territorio regionale), di cui 3.548 in modo grave. La popolazione colpita è stata di 500 mila abitanti (il 42% della popolazione complessiva), di cui 137.457 nelle zone distrutte o gravemente danneggiate. Distrutti 29 comuni nella provincia di Udine e 12 in quella di Pordenone. Colpita gravemente l’industria, 6.500 le imprese coinvolte e 18 mila addetti. L’agricoltura segnò 10 mila aziende completamente distrutte e 30 mila danneggiate, 2.250 capi morti o abbattuti e 9.500 trasferiti. Il patrimonio boschivo subì gravi danni con i suoi 130 mila ettari distrutti. Ma non è tutto.

Il terremoto ha scelto la zona giusta per scatenarsi e aggiungere mali ai mali. L’area più colpita infatti comprendeva buona parte della pedemontana occidentale, tutta la zona collinare e ha interessato tutta la zona montana. Le classiche tre zone da sempre ricordate come esempio tipico di degrado socio-economico: una forte sottoccupazione agricola, industriale e terziaria, la cui unica alternativa era stata o il pendolarismo e la migrazione verso i centri urbani maggiori o la emigrazione all’estero. Con conseguente calo demografico e invecchiamento di quella popolazione (il 20-30 per cento la presenza degli anziani con punte del 60 per cento come a Venzone). Questa la realtà del Friuli fino alle ore 21.01 del 6 maggio 1976.

Che fare ora?, si sono chiesti i friulani. E sorsero i primi slogan o leitmotiv. Il primo: “fasìn dibessoi”, non come rifiuto agli aiuti esterni, ma come rivendicazione di un proprio protagonismo di popolo nel processo di ricostruzione-rinascita (in friulano si dice “tirìn su i comedons”). E poi: “dov’era com’era”: sembrava a taluni un atteggiamento delirante, era invece la volontà di rimettere in piedi i propri paesi senza perdere del tutto la propria fisonomia. Folli furono semmai i piani elaborati altrove, a Milano ad esempio, e portati a Udine come la proposta di creare una seconda Udine nella quale far convergere le popolazioni dei diversi paesi distrutti. Un terzo motivo: “prima le fabbriche, poi le case e infine le chiese”. Un altro segno della saggezza secolare dei friulani. Senza il lavoro le case sarebbero state vuote e senza il lavoro e le case non avrebbe avuto senso ricostruire le chiese. Infine, nell’Assemblea dei Cristiani del 17-19 giugno 1977 fu chiaramente delineato il percorso del dopoterremoto: non solo ricostruzione ma anche rinascita: materiale, sociale, culturale e pastorale.

Non bastava ricostruire le case, occorreva cogliere il momento per riscattare il Friuli dai suoi ritardi socio-economici e socioculturali. E ciò per rispondere all’ammonimento geniale di pre Checo Placereani: dal terremoto bisogno uscire con la testa e non con i piedi (con i piedi uscivano i morti dalle macerie).

Non si creda che sia stato facile il processo di ricostruzione-rinascita. Ci sono voluti 10 anni per rivedere i nostri paesi per la gran parte ricostruiti. È stata una fatica immensa. E se il Friuli ne è uscito lo si deve a tanti, ma soprattutto al popolo friulano. Un popolo che dimostrò una forza straordinaria e una partecipazione comunitaria anch’essa fuori dal comune. Un popolo delle tende e delle baracche che andò sulle strade a rivendicare le proprie ragioni, che non ebbe paura di farle conoscere ai governanti di allora (al presidente del Consiglio  Andreotti, ma anche alla Commissione mista di Camera e Senato in visita ai paesi terremotati, ma anche al Parlamento chiedendo una legge di ricostruzione-rinascita degna del futuro del popolo friulano). Se il duomo di Venzone è stato ricostruito com’era e dov’era, se Gemona è rinata splendida col suo Duomo e le sue case, lo si deve al popolo friulano. Poi certo anche le leggi dello stato, anche i tanti contributi di molti. E il popolo friulano lo sa e per questo ha coniato quell’ultimo slogan: il Friûl al ringrazie e nol dismentee.

Se quanti hanno a cuore il futuro del Friuli, governanti e semplici friulani, avessero ben compreso la lezione del terremoto e soprattutto del dopoterremoto, troverebbero molte indicazioni per il futuro di questa terra. Una lezione quella del terremoto che andrebbe trasmessa alle nuove generazioni e in ogni ordine di scuola, dalle elementari all’università del Friuli che, com’è noto, è sorta proprio dalle macerie di quel terremoto.

È stato definito un miracolo la ricostruzione-rinascita del Friuli terremotato o anche “modello Friuli”. Non è stato un semplice miracolo e neppure un modello, ma soltanto l’esito di un patrimonio di valori, di cultura e di storia propri del popolo friulano.

E allora ringraziamo i tanti, che magari non ci sono più, che hanno saputo far uscire il Friuli dalle macerie non con i piedi ma con la testa.

Articoli correlati

Pentecoste digitale

La recente Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, che la Chiesa ha celebrato lo scorso 12 maggio, ci offre l’opportunità di riflettere sull’obiettivo affidatole dal Concilio Vaticano II nel decreto Inter Mirifica:…

Mamma, oltre le parole

«Che cosa rappresenta la figura della mamma al giorno d’oggi?»: questo è il calibro della domanda che mi è stata rivolta. Provo quindi a prendermi la responsabilità, non senza percepirne la complessità, di dare una forma…

Fiori sbocciati in Diocesi

Due ore e dieci minuti. In autostrada e senza eccessivo traffico. È il tempo che si impiega a solcare Carnia e Friuli da un capo all’altro della Diocesi, immaginando di salire in auto davanti alla chiesa di Santa Margherita,…