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L’editoriale della settimana

di Federico Vicario

Marilenghe a scuele

Pubblicato su “la Vita Cattolica” nr. 48/2022

Il friulano siede, non da oggi e sicuramente non per caso, ai banchi di scuola. Il riconoscimento ufficiale della lingua per lo svolgimento di precise funzioni all’interno delle istituzioni scolastiche è relativamente recente, risalendo alla metà degli anni Novanta con la promulgazione delle normative regionali e statali di tutela, ma la pressione che il mondo della cultura regionale ha esercitato per favorire tale riconoscimento data almeno al secondo dopoguerra.

Il ruolo della scuola è stato da sempre considerato centrale, con buone ragioni, per la valorizzazione dell’identità locale, un’identità che trova nella lingua una delle sue espressioni di maggiore rilievo.

Dagli anni Quaranta, così, si tengono corsi di formazione e di aggiornamento in servizio per gli insegnanti, grazie al generoso impegno profuso da don Giuseppe Marchetti con la Società Filologica; negli anni Cinquanta si segnala, poi, la nascita del gruppo di maestri di Scuele libare furlane, un movimento molto vicino alla Chiesa, che si occupava già da allora, in modo sistematico, dell’alfabetizzazione in friulano per i bambini; da più di trent’anni ormai la Società Filologica pubblica e distribuisce gratuitamente – in decine di migliaia di copie – il diario scolastico Olmis, che accompagna i bambini delle elementari alla scoperta della lingua e della storia del Friuli, ma ancora precedenti sono iniziative come il Concors di un compit par furlan, Cjantutis pai fruts e altre azioni, promosse da più soggetti, per inserire il friulano nel curricolo della scuola dell’obbligo.

La normativa dice che le famiglie hanno il diritto di richiedere l’insegnamento del friulano per i figli e che le scuole hanno il dovere di provvedervi. Dai dati messi a disposizione dall’Ufficio scolastico regionale si rileva che il favore per il friulano è davvero molto alto, toccando punte dell’80-85% nelle scuole dell’infanzia e primarie, un favore che cresce di anno in anno e che interessa allo stesso modo friulani e non friulani, considerando questi ultimi la lingua, in particolare, attivo strumento di integrazione nella comunità.

Questo risultato sarà stato favorito da quanto fatto dal secondo dopoguerra in poi, senza dubbio, ma l’avvio delle politiche linguistiche nella scuola non costituisce un traguardo definitivo, se così possiamo dire, ma solo la tappa di un percorso. Il mutare del quadro sociolinguistico di riferimento, che denota per il friulano una tendenziale perdita di locutori, non permette di affidare ad una questione di principio (“è giusto parlare friulano, perché siamo friulani”) il futuro della lingua nella scuola, ma deve trovare altre motivazioni per sostenere quanto le famiglie responsabilmente già fanno, cioè scegliere il friulano per i propri figli.

La prima e più importante di queste motivazioni si chiama, a mio parere, qualità. Solo con la qualità dell’insegnamento, che passa necessariamente dalla formazione dei docenti e dalla disponibilità di materiali didattici di alto livello è possibile rendere anche conveniente, oltre che giusto, la presenza della lingua a scuola. Sul discorso della qualità si gioca, insomma, questa delicata partita, dove tutti i soggetti che si occupano di scuola devono fare rete e concorrere, ognuno per quanto di sua competenza, al miglior risultato possibile. Mi riferisco quindi alla Regione autonoma e all’ARLeF, che devono sostenere e coordinare le forze in campo, all’Ufficio scolastico regionale e all’Università di Udine, con il corso di laurea in Formazione primaria, alla Società Filologica Friulana e al DocuScuele, con varie attività di promozione e la produzione di materiali, agli Istituti scolastici sul territorio, per la gestione delle risorse economiche e umane disponibili.

La collaborazione di tanti soggetti diversi potrebbe sembrare un’utopia in un contesto come quello friulano, che ha spesso visto prevalere le divisioni su quello che si può considerare il bene comune, ma la collaborazione è diventata ora una necessità, più che una scelta. Pare giunto il momento di aggiungere qualcosa, insomma, al romantico ma un po’ superato di bessôi: di bessôi… ma ducj adun.

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