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L'editoriale

Ue tra forza e fragilità

di Fabio Spitaleri (professore di diritto dell’Unione europea presso l’Università di Trieste)

Fin dalle prime votazioni, nel 1979, le elezioni europee sono state precedute, in Italia e non solo, da una campagna elettorale incentrata prevalentemente su questioni politiche nazionali. Inoltre, l’appuntamento elettorale è servito essenzialmente a verificare la tenuta della coalizione di governo, gli equilibri interni tra i partiti di maggioranza e le prospettive di crescita dell’opposizione.

Negli ultimi dieci anni le cose sono in parte cambiate: si discute ancora molto di questioni interne ma, progressivamente, si dibatte un po’ di più di tematiche europee. Nel 2014, si è parlato, con forti accenti di critica, di euro e di politiche di austerità. Nel 2019, i temi di interesse europeo si sono moltiplicati: l’immigrazione; la Brexit e i presunti vantaggi (o svantaggi) di un’uscita dall’Unione; la crescita dei partiti sovranisti; i rischi per l’Unione derivanti dall’ascesa al governo di leader politici che ‒ com’è avvenuto in Polonia e in Ungheria ‒ sostengono, e attuano, modelli di “democrazia illiberale”.

La campagna elettorale del 2024 non è ancora iniziata; i primi interventi sembrano tuttavia confermare un interesse limitato, ma in crescita, per le questioni europee.

Il dibattito attuale si inserisce in un contesto, che vede sicuramente l’Unione europea rafforzata dalle iniziative adottate recentemente dalle istituzioni comunitarie. Almeno due sono i punti di forza che meritano di essere sottolineati.

Anzitutto, l’Unione dispone ora di un ampio ventaglio di strumenti per affrontare le crisi economiche e finanziarie. Ad esempio, la BCE può avviare programmi straordinari di acquisto di titoli nazionali, pubblici e privati. Per l’Italia, ciò ha significato un intervento di circa settecento miliardi di euro. L’Unione stessa può emettere, in situazioni di crisi, titoli di debito comune per sostenere misure nazionali di carattere sociale e per finanziare investimenti. Nel quadro del PNRR sono previsti per l’Italia aiuti, nella forma di sovvenzioni e prestiti, che ammontano a circa duecento miliardi di euro.

Inoltre, l’Unione può ora sanzionare gli Stati membri che ledono i valori dello Stato di diritto, come l’indipendenza della magistratura, il pluralismo dei media e la lotta alla corruzione. L’Ungheria ha di recente “assaggiato” questo potere delle istituzioni europee, subendo il congelamento di circa trenta miliardi di euro di fondi comunitari.

Tuttavia, le fragilità dell’Unione esistono e sono sotto gli occhi di tutti. La capacità di incidere sulle crisi internazionali è molto limitata; basta il veto di un singolo Stato membro per paralizzare ogni iniziativa in materia di politica estera e di difesa comune. L’allargamento dell’Unione a nuovi Stati, come l’Ucraina e i Paesi dei Balcani occidentali, presuppone il consenso di tutti gli Stati membri. All’unanimità devono essere approvate anche le misure di armonizzazione fiscale e quelle relative al bilancio pluriennale dell’Unione. Allo stesso modo, solo con un voto unanime potrebbero essere modificate quelle disposizioni dei Trattati, che riservano agli Stati membri decisioni centrali in materia di immigrazione, come la determinazione dei volumi di ingresso di stranieri per motivi di lavoro. In altri termini, gli interventi sulle questioni, che in questo momento storico risultano più rilevanti, sono soggetti a un diritto di veto di ogni Stato membro, che può bloccare qualsiasi proposta.

Oggi, il principale punto di debolezza dell’Unione è proprio l’obbligo di decidere all’unanimità su alcune questioni essenziali. La fine del diritto di veto dovrebbe essere al vertice dei programmi dei partiti, che intendono aumentare l’efficienza dell’Unione e la sua capacità di migliorare la vita e la sicurezza dei cittadini chiamati al voto.

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