di
Roberto Pensa
Un anno di “sospensione” (alias chiusura) del punto nascita e della pediatria di Latisana. Ma siamo proprio sicuri che per rendere più sostenibile la nostra sanità bisogna iniziare “tagliando” i servizi di prossimità a mamme e bambini? Alcune ricerche dicono che servono più pediatri (anche e soprattutto per insegnare stili di vita corretti) piuttosto che geriatri e i dati dicono che dove non si chiudono i piccoli punti nascita la mortalità è inferiore che da noi.
La notizia è, indubbiamente, ottima. Con un punteggio di 93,11 su 100 l’Italia è prima nella classifica stilata dall’indice globale di salute redatto dall’importante società di consulenza Bloomberg. Gli italiani, insomma, sono i più sani del mondo, nonostante i problemi legati all’economia. Ci lamentiamo sempre della nostra sanità ma, evidentemente, la tutela della salute dalle nostre parti non è così male, anche se, secondo Bloomberg, il merito di questo ottimo risultato è soprattutto del nostro stile di vita. Un bambino che nasce in Italia ha una speranza di vita che supera significativamente gli 80 anni. Qui però nasce un serio paradosso: il tasso di natalità in Friuli continua a diminuire, le culle si svuotano, e quindi ad «approfittare» della possibilità di questa straordinaria speranza di vita, prima al mondo, sono sempre meno bambini. Insomma, abbiamo costruito un grande futuro, ma è come se ce l’avessimo già alle spalle, perché sono sempre meno i genitori disposti a «scommettere» sul futuro generando un figlio. Un paradosso che non è insensato, evidentemente: la crisi economica, l’instabilità del lavoro, la difficoltà delle mamme (e dei papà) a conciliare lavoro e vita familiare per dei ritmi professionali sempre più insostenibili, è come se oscurassero le conquista ottenute in termini di salute e di speranza di vita. La nostra società è come una piramide rovesciata, nella quale i bambini e i giovani, la promessa di futuro, hanno sempre meno spazio.
In tutti gli ambiti della vita quotidiana, dalla spesa pensionistica che sovrasta quella sociale per il reinserimento al lavoro, dagli stipendi molto più elevati per i più anziani rispetto ai giovani colpiti dalla globalizzazione e dalla flessibilità, sembra che le nuove generazioni siano ritenute meritevoli di uno spazio più ristretto di coloro che li hanno preceduti. Le risposte per ribaltare questa situazione devono essere molteplici: maggiori servizi per la maternità, un reddito di maternità e paternità per i genitori «eroici» che decidono di affrontare l’avventura di un figlio, un clima aziendale più aperto e flessibile per le mamme e per i giovani.
Soffermiamoci però sulla questione della sanità. È passato un anno dalla «sospensione» (un modo pilatesco per dire chiusura) del punto nascita e del reparto di pediatria dell’Ospedale di Latisana. È significativo che uno degli atti più concreti – fino ad ora – della riforma sanitaria regionale sia la chiusura di un reparto maternità. È riducendo i costi in questo settore che va trovato un equilibrio sostenibile per la sanità del futuro? Difficile avere dati locali che facciano luce a questa domanda. Ci può venire incontro una vastissima ricerca che ha indagato le maggiori cause di spesa della sanità Usa dal 2006 al 2013 (pubblicata dalla rivista scientifica Jama Network), paese in cui, per inciso, si impiega in salute il 17% del Pil, mentre in Italia siamo fermi al 7%. Ebbene, le prime tre patologie che hanno generato il più alto volume di spesa sono, nell’ordine: il diabete, le malattie cardiache ischemiche e la cura del mal di schiena. Malanni cronici che riguardano più che altro la popolazione adulta e anziana e coinvolgono da vicino lo stile di vita che si forma nell’infanzia e nella giovinezza. Il suggerimento (anche per la nostra riforma sanitaria) sembra lampante: occorre investire nella cura (e soprattutto nell’educazione e prevenzione, coinvolgendo anche i genitori) delle giovani generazioni: c’è più bisogno di pediatri, insomma, che di geriatri, se si vuole cambiare il corso del futuro.
Invece, proprio la mancanza di pediatri è stata una delle cause che hanno provocato la «sospensione» del punto nascita di Latisana: in una Regione che ha ben due facoltà di Medicina, cosa si sta facendo per orientare i giovani medici verso questa specialità così importante?
Un altro stimolo a riflettere ce lo dà il «Rapporto nascite 2014», pubblicato martedì 21 marzo. È noto come uno dei motivi di chiusura della maternità a Latisana è non aver raggiunto il livello di 500 parti, considerato da un accordo Stato-Regioni del 2010 uno standard minimo per la sicurezza (dovuto soprattutto all’inesperienza degli operatori nell’affrontare casistiche avverse particolari). Ebbene, facendo un confronto a Nordest, si apprende che la mortalità infantile nel 2014 è stata notevolmente più bassa in Veneto e in Trentino rispetto al Friuli-Venezia Giulia (rispettivamente 2,60 e 2,24 per mille contro il nostro 3,30). Eppure, sia il sistema sanitario veneto che quello trentino si caratterizzano per la scelta di non aver voluto «tagliare» diversi punti nascita con parti inferiori ai 500. In Trentino addirittura quasi il 30% dei parti e quasi il 70% dei punti nascita opera in queste condizioni; il Veneto continua a mantenere «sale parto» diffuse sul territorio, esattamente 36 per 36.399 nascite nel 2016, di cui solo 14 assistono più di 1000 parti/anno, mentre nella maggior parte delle restanti 21 il numero dei parti va dai 126 ai 900 circa all’anno. Viene da pensare, perciò, che ci sia una distanza tra la teoria e la pratica. E, d’altronde, non si hanno notizie di clamorosi casi di mortalità infantile avvenuti in passato a Latisana.
Insomma, le voci critiche meritano più ascolto: non sarebbe meglio non tagliare un servizio di prossimità in un ambito così strategico come la maternità e l’infanzia e puntare invece ai veri buchi neri del bilancio sanitario?
Roberto Pensa