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Opinioni

Ed ecco ritorna lo spauracchio del voto in condotta. Serve davvero?

In più di un quarto di secolo di professione docente ho imparato, tra le altre cose, l’importanza del mettermi in discussione. Tra gli ostacoli del mio mestiere, però, quello che mi ha sempre messo in difficoltà è la valutazione. L’idea di dover assegnare un numero ad una prestazione di uno studente è un fatto che ancora mi agita. Mi chiedo non tanto quanto io sia competente nel farlo (negli anni ho acquisito strategie, formazione, esperienza, feedback a più livelli) quanto piuttosto se ciò abbia ancora senso a livello educativo. Allo studente devo dire che la sua prova vale x nell’ambito di una scala graduata in cui c’è un minimo, un medio e un massimo. Quando so che lo stesso studente (tendenzialmente immaturo, visto che a scuola ci viene appunto per maturare) recepisce tale valore come attribuito alla sua persona più che alla sua competenza disciplinare. Così tra professori ci troviamo ad affermare che ci sono prove che “valgono” otto/decimi o dodici/ventesimi; poi facciamo le “medie”, teniamo conto di questo e di quello (impegno, attenzione, partecipazione, rispetto delle consegne…) ed attribuiamo un voto finale ponderato che dovrebbe fotografare l’andamento dello studente. Ma che cos’è quel valore che gli stampiamo in fronte? Ci dice quanto sa, quanto sarà abile ad affrontare le sfide della vita, quanto produrrà nel suo futuro ambito lavorativo, quanto saprà resistere al dolore se sarà un buon genitore o un pessimo nonno?

Sarò catastrofico, ma credo che quel voto non servirà proprio a niente di tutto questo. Ci è solo servito, durante un arco di tempo essenziale per la formazione dell’individuo, a classificare delle prestazioni secondo un ordine di adeguatezza ad uno standard.
Di nuovo, lo ripeto, in un quarto di secolo di professione ho accumulato più domande che certezze, ma tra queste ultime c’è il “ritorno” che ti dà lo studente che ha preso un bel voto in un’interrogazione, per la quale sai che ha lavorato giorni e settimane: sorride, si sente sollevato, ti guarda con orgoglio e consapevolezza. E dall’altra parte c’è quello che ha preso un brutto voto: ti guarda con risentimento, non riesce ad elaborare il peso della “sconfitta”, iscrive già il giorno stesso i genitori al colloquio, ritornerà (forse) a guardarti con una certa simpatia (se te la saprai riconquistare) solo dopo settimane o mesi…

Non è facile, soprattutto nell’età della scuola superiore (sia di primo che di secondo grado), riuscire a capire che il voto che ti è stato assegnato non fotografa la tua vita o la tua persona. In quell’età hai bisogno di altro, non vuoi essere trattato come un pezzo di ferro partorito da una macchina: hai bisogno di ascolto, di imparare ad assorbire i colpi, di empatia, di pacche sulle spalle, di sentire che dall’altra parte dell’aula c’è uno che ci crede, che ha a cuore il fatto che tu cresca e impari.

Il resto sono strumenti, nient’altro che strumenti.

Queste riflessioni mi sono riemerse con forza quando ho saputo che il Senato della Repubblica ha appena approvato un disegno di legge proposto dal Ministero (dell’Istruzione e del Merito) che prevede una serie di novità in relazione all’attribuzione del voto di condotta. Ritornano i numeri sul comportamento alle scuole Medie, alle Superiori si applicheranno dei “malus” se i voti saranno inferiori al nove, le sospensioni non saranno più trascorse a casa ma implicheranno attività e verifiche compensative, ci saranno persino multe pecuniarie a vantaggio della scuola di appartenenza per chi aggredirà un insegnante, un dirigente, un assistente etc. Il tutto, secondo la logica – proclamata ai quattro venti – che così si responsabilizzeranno gli studenti e si restituirà “autorevolezza” agli insegnanti.

Ma a me la perplessità resta. Se è vero che in questi ultimi anni i casi di indisciplina e violenza nei confronti del personale della scuola sono aumentati dobbiamo però davvero chiederci se la risposta più efficace sia quella di usare sempre più il “bastone” (virtuale, ovviamente) in un settore delicato come quello dell’educazione. E non, invece, di investire (magari sperimentando) su altro. Ad esempio, direte voi? Ne “sparo” un po’. Edifici scolastici moderni e funzionali (che cosa si può pretendere da uno studente che passa quaranta ore alla settimana in un’aula grigia e fredda di un seminterrato? che rispetto potrà avere dei luoghi e di se stesso?); spazi mensa, relax, recupero didattico e studio antimeridiano e pomeridiano in ogni scuola; riorganizzare i gruppi classe non più per fasce d’età omogenee ma per interessi disciplinari e passioni condivise; imporre un numero massimo di studenti per gruppo (non più di quindici); attività laboratoriali, di gruppo e in compresenza tra più docenti; formazione psicologica e supporto permanente per studenti e insegnanti; disponibilità di luoghi d’ascolto (anche ai fini del riorientamento dello studente demotivato o che ha sbagliato indirizzo di studi) e spazi di creatività gestiti da insegnanti tutor con l’aiuto degli studenti più grandi; ispezioni periodiche da parte di consulenti esperti; interazione costante col territorio…
Potrei continuare, ma sento già sorgere una domanda: là in fondo qualcuno ha la mano alzata… “e chi dovrebbe pagare tutto questo?”. Già. Meglio restare sulle punizioni allora: più facile pretendere il rispetto del regolamento ed eventualmente comminare sanzioni che provare a costruire qualcosa di diverso.
Ne usciremo? Tempo fa avrei detto e scritto, con una buona dose di retorica: “Solo con l’aiuto e l’impegno di tutti”. Oggi – che qualche capello bianco ha fatto capolino anche sul mio capo – preferisco dire: “Io nel mio piccolo ci provo: a lanciar sassi e a sperimentare. E le difficoltà ho imparato ad affrontarle una alla volta…”. Poi, per fortuna, non è tutto nelle mie mani, ma anche in quelle di chi sta più in alto di tutti noi e la vede sicuramente più lunga. No, che cosa avete capito?, mica parlavo del ministro!

Luca De Clara
insegnante

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