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L'editoriale

L’editoriale della settimana

di Gianfranco Ellero

Rose per Liliana.

Il 13 ottobre scorso, a mezza mattina, sugli schermi dei televisori è apparsa una bella Signora, molto elegante, che da una dorata poltrona parla con voce dolce, pacata, suadente, ma ferma.

Saluta il Presidente della Repubblica e il Papa, trasmette il messaggio del senatore Napolitano impossibilitato a intervenire, e poi dice parole che conviene trascrivere per memoria: “Oggi sono particolarmente emozionata di fronte al ruolo che in questa giornata la sorte mi riserva. In questo mese di ottobre, nel quale cade il centenario della marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio a me assumere momentaneamente la Presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica. Il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente, perché – vedete – ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre ed è impossibile, per me, non provare una specie di vertigine ricordando quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco della scuola elementare. E oggi si trova, per uno strano destino, addirittura sul banco più prestigioso del Senato”.

A quel punto l’intera assemblea si alza in piedi e applaude calorosamente l’ebrea Liliana Segre, senatrice a vita, che evita di raccontare ciò che accadde, a lei e alla sua famiglia, nei sette anni successivi a quel maledetto 1938.

E mentre ricorda, con brevi cenni, la guerra in Ucraina, il valore della Costituzione, “che – come dice Piero Calamandrei – non è un pezzo di carta, ma il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà”, e il valore unificante di alcune date, “il 25 aprile, Festa della liberazione, il 1° maggio, Festa del lavoro, il 2 giugno, Festa della Repubblica”, con la memoria lo scrivente ritorna a un lontano Convegno del Centro di Zugliano (“Fede e Religione. Per la pace, la giustizia e la salvaguardia del Creato nel ricordo di Ernesto Balducci”, settembre 1995), dove venne a rendere la sua testimonianza sui campi di sterminio nazisti.

Aveva soltanto dodici anni Liliana quando fu deportata ad Auschwitz, ma l’umiliazione era iniziata molto prima, quando fu espulsa dalla scuola. Seguirono anni duri di sacrifici, discriminazioni e isolamento, e infine iniziò la straziante esperienza della deportazione: il viaggio di una settimana in un vagone sigillato e senza servizi igienici; l’arrivo sulla rampa delle selezioni (“progettata solo per noi: è questo che distingue la Shoah dagli altri stermini dei nazisti”), dove rivide per l’ultima volta suo padre, quarantenne, che le chiese scusa per averla messa al mondo; l’incisione del numero 75190 sul braccio sinistro, la denudazione, la rapatura a zero, il rivestimento di stracci, le percosse, le crudeltà, il lavoro coatto, la brodaglia, le latrine aperte e comuni, e lo spettacolo delle ciminiere sempre fumanti che diffondevano una nebbia nauseante; infine la marcia della morte nel gennaio 1945. Tutto questo, disse, “per l’unica colpa di essere nati”.

“Io c’ero” ripeté durante la successiva visita ad Aquileia. “Sì, c’ero anche quando gli aguzzini si vestirono da borghesi per confondersi fra i profughi. Uno di essi gettò la pistola proprio davanti ai miei piedi: sarebbe stato facilissimo prenderla e sparare, ma non lo feci perché avevo scelto la vita”.

Forse, se avesse sparato, il 13 ottobre non sarebbe arrivata sulla poltrona più alta del “tempio della democrazia”, e noi non avremmo visto il neoeletto Presidente del Senato, che per molti anni ha difeso l’indifendibile, renderle omaggio con un mazzo di rose bianche e salutarla con un abbraccio.

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