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L'editoriale

L’editoriale della settimana

di Marina Giovanelli (scrittrice)

Il coraggio delle donne

Si può morire per una ciocca di capelli? La risposta, in apparenza così ovvia, non è per nulla scontata là dove è in vigore una costituzione, ispirata alla legge coranica, che prescrive in modo rigido non solo l’obbligatorietà del , il velo che copre la testa, ma perfino le modalità dell’indossarlo. È bastato un ciuffo di capelli libero sulla sua fronte per far arrestare dalla polizia morale la giovane Mahsa Amini, condurla in prigione a Teheran e trattenerla lì, per dichiararla morta tre giorni dopo, il 16 settembre.

A leggere questa notizia si affollano nella mente considerazioni di segno diverso sullo scorrere del tempo, ricordi di letture vecchie di decenni che aprirono finestre su un mondo poco noto (), immagini di quel celebre graphic novel, in cui l’autrice Marjane Satrapiraccontava gli sconvolgimenti politici e sociali avvenuti nel periodo 1978-1979, che trasformarono la monarchia dell’Iran in una repubblica islamica sciita,attraverso gli occhi di una bambina di nove anni quale era lei allora. Si trattava in prima istanza di adottare lo nella vita quotidiana, una odiosa limitazione fisica che diventava per il regime simbolo d’ordine socio-politico.

Si sa che i simboli sono ambivalenti, che costituiscono una sintesi fra immaginazione e riflessione, ed è vero che in Occidente si è spesso abusato di questo specifico simbolo per definire la sottomissione femminile, senza considerare le resistenze opposte dalle donne stesse e da una larga parte della gioventù iraniana anche maschile (il 60% della popolazione ha meno di 30 anni), sempre più solidale con sorelle e compagne nella richiesta di libertà.

E non è solo nel mondo islamico che si misura la tenuta di un assetto di potere in base alla capacità di controllo sul corpo delle donne. Da sempre, e ovunque, si è delegata al comportamento delle donne la stabilità del rapporto fra i sessi, si è esaltata la forza generativa, valorizzata l’esperienza millenaria della cura: si tratta solo di modulare la pressione a livelli diversi, in modo da non spezzare gli equilibri creatisi nella tradizione locale.

Ai simboli bisogna fare attenzione per non cedere al pregiudizio, attribuendo un valore assoluto a ciò che è soggetto alle mutazioni nel tempo e nei luoghi. Così è sbagliato imporre il velo a chi non vuole portarlo, ma altrettanto sbagliato, a mio parere, è proibire di portare il velo a chi lo ritiene parte della propria cultura. Non si tratta di relativismo culturale ma di rispetto di valori storici e specifici, piuttosto che universali.

La novità dell’attuale ribellione delle donne iraniane sta nel fatto che la loro azione di protesta si compie dall’interno del Paese, che riceve il sostegno di molte e molti, che non può essere attribuita all’azione destabilizzante di un “nemico”, come pretenderebbe il presidente Ebrahim Raisi, che innesca ampie reazioni in molte parti dell’Iran, non solo nell’area kurda, da cui non a caso proveniva Mahsa Amidi. Con il linguaggio del corpo, secondo pratiche introiettate nel tempo, stracciano pubblicamente il velo, si tagliano i capelli che dovrebbero nascondere, ballano e gridano mentre le si vorrebbe mute, hanno perfino issato su un’asta una bandiera fatta di capelli che sventolano contro la repressione.

Il loro coraggio di manifestare a rischio della vita stessa, come quello di altre indomite sostenitrici della libertà, come le afgane, impone al mondo liberale e democratico una presa di posizione non formale, un sostegno in termini di aiuti concreti.

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