A pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico, travolti come al solito – studenti, genitori ed insegnanti – dalla marea di cose da fare e da pensare, mentre siamo tentati dall’intervenire a gamba tesa nel dibattito pubblico sullo ius scholae, proviamo invece ad allungare lo sguardo e ad interrogarci su un piano di altra prospettiva. Il 2024/25 cadrà, infatti, a cavallo dell’anno santo giubilare 2025, il cui motto, così come è stato annunciato, sarà “pellegrini di speranza”.
Quali suggestioni si possono ricavare da questo “incrocio”? Quali indicazioni e quale provocazione possono venire per il mondo della scuola friulana da un evento straordinario per la chiesa universale come il giubileo? E, soprattutto, il tema: in che modo le parole-chiave del pellegrinaggio intercettano il mondo complesso dell’educazione?
Procediamo con ordine. La mia fantasia è particolarmente sollecitata dalla figura del pellegrino. Pellegrino è colui che va letteralmente “per agros”, per i campi, scegliendo percorsi desueti e discosti dall’andare dei molti; colui che preferisce le solitudini agresti e meditabonde alle piazze caotiche e affollate. È poi colui che parte povero, mettendo tutta la sua fiducia in una bisaccia piena di poche cose, le più indispensabili però, perché una riflessione seria su che cosa davvero sia utile per il suo cammino non può non averla fatta. Si fida, poi, il pellegrino: spera di trovare le tracce di altri che lo abbiano preceduto, ma è disposto anche a rischiare del suo, a perdere il cammino per ritrovarlo più avanti; spera di trovare ospitalità e accoglienza lungo il percorso, guadi, ponti, compagni di viaggio… Compie un atto di fede sulla propria pelle, disposto a giocare con i limiti della resistenza fisica e della pazienza. Perché ha un obiettivo: arrivare alla meta per dare testimonianza; per dire ad esempio che davvero lì è il sepolcro (vuoto) del Cristo, lì giacciono i resti di Pietro, là quelli di Giacomo. Tanti modi per ripetere concretamente un “alleluia” interiore, per manifestare al mondo che “sì, è davvero risorto!”.
La scuola, in tutti gli ordini e gradi, ha sicuramente tanto da assorbire da queste suggestioni. In primo luogo il coraggio: intraprendere un cammino accettando i rischi che ciò comporta è la sfida vera di ogni rapporto educativo. Si potrà sbagliare nell’azione, nella scelta degli strumenti, nei giudizi, ma se la meta è chiara – favorire la crescita umana e culturale di un bambino e di un allievo – non mancherà il coraggio di aggiustare la rotta, di ovviare alla difficoltà mutando il sentiero, magari procedendo davvero “per agros”, per strade nuove, mai sperimentate né tentate prima, alternative. Farsi pellegrini nella scuola, in direzione dell’anno giubilare 2025, significa allora avere anche l’ardire di rimettersi in cammino, pensando che le strategie debbano sempre rinnovarsi al ritmo della realtà che muta.
La fiducia, poi: così come il pellegrino mette la propria vita nelle mani di Dio, del destino e degli eventi, così l’educatore deve avere sempre la consapevolezza che il suo compito, pur potendo risultare a volte decisivo, non sarà mai del tutto nelle sue mani. Non deve pretendere di avere il controllo su tutto, deve accettare che qualcosa gli sfugga, che non sia sempre classificabile, prevedibile e misurabile. L’idea che si debba essere sempre tutti efficaci e performanti a ogni costo sta producendo più danni che benefici.
E infine – ultima cosa – l’esperienza del camminare per vedere con i propri occhi, per testimoniare. Ogni insegnante sa che l’allievo che sperimenta, che mette le mani, che tocca i luoghi e le cose con lo sguardo vivo dell’esperienza apprende e interiorizza più facilmente. Quanto sarebbe bello che sempre di più i gruppi di bambini e di ragazzi affidati alla scuola nei loro anni più belli fossero aiutati ad uscire dalle aule: per vedere con i propri occhi, per toccare con le loro mani. In città, nei paesi, nei parchi, nel bosco, lungo i corsi d’acqua, nei musei, negli archivi, nelle aziende, nelle campagne, nei laboratori di ricerca, nei luoghi delle istituzioni. Un timore indotto da alcune norme che a me paiono più alibi che risorse ha reso sempre più difficile intraprendere queste esperienze nella scuola di oggi. È certo più facile dal punto di vista della responsabilità chiudersi dentro un’aula e far passare magari anche brillantemente le ore. Ma che cosa resta, poi, rispetto alla vita che consuma, alle mani che impastano, ai piedi che calpestano, agli sguardi che accolgono e si interrogano?
I “pellegrini di speranza” più veri e vivaci sono proprio i bambini e i giovani: diamoci da fare per aiutarli a mettersi in cammino.