
Stavolta ci siamo: il 17 luglio è in calendario al Senato il dibattito per dotare anche l’Italia di una legge per regolare l’anticipazione volontaria della morte naturale. Che tipo di legge sarà, tuttavia, non è ancora certo. Quanti ritengono che la vita umana non sia un bene disponibile e neanche un bene soltanto individuale, auspicano che essa non vada oltre i varchi già aperti dalla Corte Cost., rispetto ai quali, purtroppo, non è possibile fare retromarcia. Affinché questo auspicio possa avverarsi, il Parlamento deve chiarire alcuni aspetti fondamentali.
La Corte Costituzionale ha finora sempre ribadito che non esiste un diritto al suicidio e che l’interesse della società è per la vita, limitando per questo l’eccezionalità della non punibilità dell’aiuto al suicidio alla presenza di alcune condizioni, tra cui la dipendenza del paziente da sostegni vitali. Il primo aspetto da chiarire è cosa debba intendersi per sostegni vitali. Dal punto di vista medico il concetto è legato al mantenimento in vita attraverso macchine e così lo aveva inteso anche la Corte Costituzionale nelle motivazioni della sent. 242/2019. È in atto, tuttavia, un tentativo di ridefinizione per via giudiziaria, fino ad intendere per sostegno vitale ogni aiuto a situazioni di dipendenza e già la Corte Cost. con la sent. 135/2024 ne ha allargato il perimetro, fino ad includervi “procedure quali l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali” (sent. 135/2024), salvo poi precisare che non tutti i trattamenti sanitari possono essere considerati sostegni vitali (sent. 66/2025).
Una definizione ex-lege del concetto eviterebbe una estensione indebita della platea degli aspiranti suicidi.
Analogamente dovrebbe essere precisato per legge cosa debba intendersi per patologia ad esito infausto, dato che la vita stessa è ontologicamente ad esito infausto. Andrebbe pertanto chiarito che si tratta di esito infausto a breve termine, precisando anche la durata temporale.
La Corte Cost. prevedeva tra i requisiti quello di una sofferenza insopportabile, fisica o psicologica. Occorrerebbe precisare che la sofferenza psicologica deve essere legata alla grave malattia fisica, per evitare che anche in Italia possano essere aiutati a morire il paziente depresso o quello con autismo.
Bisognerà poi vigilare che la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio (art. 580 cp) non venga allargata alla depenalizzazione dell’omicidio del consenziente (art. 579 cp). Tra due settimane la Corte Costituzionale affronterà il caso di una paziente che non è in grado di azionare da sola il dispositivo per la somministrazione del farmaco letale. Possiamo solo sperare che la Corte non si lasci prendere, ancora una volta, dalla logica della Associazione Coscioni. Già una volta, infatti, rotto l’argine del lasciarsi morire per sospensione delle cure (con la legge 219/2017), nascondendo la morte con la sedazione terminale, era logicamente accaduto (e ne ero stato inascoltato profeta durante il dibattito parlamentare sulla L. 219) che la Consulta aprisse “logicamente” ad altri e più rapidi modi di lasciarsi morire, attraverso dispositivi di somministrazione di farmaci letali (suicidio assistito, ordinanza n. 207/2018 e sent. 242/2019). Cosa potrà evitare, ora, che sia data la morte a chi, benché nelle stesse condizioni, non è in grado di uccidersi? Col “nobile” scopo di evitare discriminazioni, si realizzerà in tal modo il salto dal suicidio assistito alla eutanasia.
Occorrerà inoltre fare in modo che il Sistema sanitario nazionale fornisca a tutti i pazienti un percorso di cure palliative che potrebbero prevenire il ricorso al suicidio, fornendo nuove prospettive di possibile convivenza con la malattia. Infine, è fondamentale evitare che il suicidio assistito (o peggio l’omicidio del consenziente) diventino prestazioni fornite obbligatoriamente da tutte le strutture del servizio sanitario nazionale, al pari dei Lea (Livelli essenziali di assistenza). La stessa Corte Costituzionale aveva sentenziato che la morte procurata non rientra tra i doveri del Sistema sanitario nazionale. Le strutture sanitarie, infatti, debbono mantenere la loro autentica vocazione di cura e non confondersi con l’aiuto a morire, come se esso non fosse un fallimento, ma invece una cura tra le altre. La morte procurata non deve entrare nelle strutture sanitarie, affinché non venga rotto il patto ippocratico, non sia pervertita la professione medica e nessun paziente si senta sotto pressione e chieda di morire per non essere di peso per la famiglia o la comunità.
Sarà possibile ottenere tutto ciò? La maggioranza di governo (pur con alcuni dissensi interni) sembra ben orientata. Non altrettanto l’opposizione, dove anche i deputati di estrazione cattolica sono stati allineati al nuovo corso dei “diritti individuali” della segreteria Schlein. Fortunatamente il progetto “Bazoli” sembra avviato su un binario morto, ma questo è il momento di esercitare ogni legittima pressione culturale e politica, come la stessa Cei ha incominciato a fare. Il magistero della Chiesa (Samaritanus Bonus, 2020) ci ricorda il dovere di essere uomini di speranza per un mondo disperato. Ed è la perdita di speranza la motivazione vera delle richieste di morire.
Gian Luigi Gigli
Senior Professor di Neurologia dell’Università di Udine